Finirà? Ma sì che finirà: Giovanni Falcone, il giudice che smantellò la cupola e mandò a processo oltre quattrocento boss di Cosa nostra, ne era certo, certissimo: “La mafia è fatta di uomini e come tutte le cose fatte dagli uomini ha avuto un inizio e avrà una fine”. Lo diceva proprio nel giorno in cui il presidente del Tribunale, Alfonso Giordano, leggeva nell’aula bunker dell’Ucciardone la sentenza che distribuiva ergastoli e condanne per secoli e secoli di carcere. Era il dicembre del 1987, un anno felice. Non solo per Falcone. Anche per Gianni De Gennaro, il superpoliziotto che era stato il primo a credere nella possibilità di convertire alla “buona causa” Tommaso Buscetta, un malacarne che trafficava con la droga tra la Sicilia e il Brasile, e un killer tra i più spietati come Totuccio Contorno. Lo Stato aveva vinto. E, per la prima volta, la mafia aveva perso. I padrini che, in apertura delle udienze, sghignazzavano per intimidire, da dietro le sbarre, parti civili e giudici popolari, si ammutolirono di colpo. C’era il gotha dei mammasantissima in quell’aula: da Michele Greco, detto il Papa, a Luciano Liggio, da Leoluca Bagarella a Pippo Calò. Il loro destino era ormai segnato. Avrebbero finito i loro giorni nelle carceri di massima sicurezza, murati vivi nelle celle del 41-bis.

Finirà? Ma sì che finirà, diceva Falcone da vivo. Perché il 23 maggio del 1992 – anno infelice, infelicissimo – i corleonesi di Totò Riina, che al maxi processo era stato condannato da latitante, credettero di regolare i conti con il tritolo. E sull’autostrada di Capaci fecero saltare in aria il magistrato che aveva istruito il maxi processo. Una carneficina: con Falcone furono trucidati la moglie, Francesca Morvillo, e i ragazzi della scorta. Tutti morti. Fatti a pezzi da un attentato che di colpo cancellava ogni speranza e ogni illusione. “Sono un cadavere che cammina”, ripeteva Paolo Borsellino, l’altro giudice segnato a dito dalle cosche, nei cinquanta giorni che avrebbero separato la strage di Capaci dalla strage di via D’Amelio.

Finirà? In quel tempo, così cupo e balordo, non ci credeva più nessuno. Altro che emergenza. “Palermo come Beirut”, titolarono i giornali davanti alla devastazione e al sangue che scorreva nell’inferno di via D’Amelio. Tra le lacrime e le paure di un’Italia terrorizzata dalla violenza mafiosa furono adottate dal governo tutte le misure che l’emergenza imponeva. Dal carcere duro all’ergastolo ostativo. Perdete ogni speranza o voi che entrate: così venivano accolti nei penitenziari i condannati per mafia. Mentre polizia e carabinieri setacciavano le campagne di Corleone e cercavano pentiti o confidenti che potessero offrire un indizio, un segnale, una labile traccia per scovare i responsabili e consegnarli in manette alla giustizia.

Pur con tutte le difficoltà, i ritardi e anche gli errori, ci sono riusciti. Dopo trent’anni tutti gli stragisti sono stati consegnati alle patrie galere. Il 15 gennaio del 1993 fu arrestato Totò Riina, il Capo dei capi. Un anno dopo finirono in manette i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, plenipotenziari della mafia di Brancaccio. Il 20 maggio del 1996 toccò a Giovanni Brusca, il picciotto di San Giuseppe Jato che aveva premuto il telecomando per l’attentatuni di Capaci. L’11 aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza, fu la volta di Bernardo Provenzano e il 16 gennaio del 2023, dopo un’indagine da manuale, sempre i carabinieri del Ros hanno individuato e accerchiato, alla clinica Maddalena di Palermo, Matteo Messina Denaro, l’ultimo della dannata compagnia. Per trent’anni, con una identità falsa, con una capillare rete di complicità e tante protezioni, il padrino di Castelvetrano si era goduta la vita. Ora è rinchiuso nel carcere dell’Aquila. Ha un tumore e riceve le cure necessarie in una sala attrezzata per la chemioterapia. Le procure di mezza Italia, da quella di Palermo a quella di Firenze, si aspettano che si converta e dica tutto quello che sa sulle stragi, sugli intrighi e sui misteri di Cosa nostra. Ma non succederà. Non si è collegato con Caltanissetta, dove la Corte d’Assise d’Appello lo sta processando per Capaci e via D’Amelio.

Difficilmente risponderà ai magistrati di Firenze che indagano sulla strage dei Georgofili. E sarà un peccato. Perché una sua deposizione potrebbe fornire alcuni squarci di verità e, all’un tempo, diradare quella cappa di mistero che autorizza chiunque a costruire, dentro la grande tragedia della mafia, il proprio romanzo.

Basta dare uno sguardo ai talk-show. Se il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, sostiene che la cattura di Matteo Messina Denaro è stata il risultato di un’indagine da manuale, Massimo Giletti, su La7, monta un teatrino con due stagionati picciotti di mafia, Gaspare Mutolo e Salvatore Baiardo, che sostengono esattamente il contrario: ma quale indagine da manuale, il boss si è consegnato. Non ci sono prove, solo intuizioni: ma che importa. Se il procuratore generale della Cassazione, con tutte le cautele imposte dalla sua toga di ermellino, dice che la mafia non ammazza più come ammazzava negli anni maledetti, gli avanguardisti dell’antimafia insorgono e replicano a reti unificate. Sostengono che non ci sarà pace e sicurezza in Italia se prima non si verrà a capo del patto scellerato che i boss hanno stretto con il potere politico. Accusano lo Stato di avere trattato e trescato con Cosa nostra. Affermano che le stragi sono il frutto avvelenato di quelle trame oscure. E dicono pure che, senza quella collusione di altissimo livello, Matteo Messina Denaro non sarebbe rimasto per trent’anni libero di muoversi e a concludere affari a Castelvetrano, in Sicilia e nel resto del mondo.

Finirà? No. Di questo passo non finirà mai. Fateci caso: ogni volta che lo Stato mette a segno quella che i cronisti giudiziari chiamano “una brillante operazione” si leva puntualmente un coro di negazionisti pronti a sostenere che la mafia è più forte e più solida di prima. Invincibile. E se uno studioso del fenomeno, come Giovani Fiandaca o Salvatore Lupo, si azzarda a sostenere che lo Stato, pur tra mille difficoltà, è riuscito a radere al suolo tutto lo stato maggiore di Cosa nostra, da Totò Riina a Messina Denaro, quello studioso rischia – è successo – di essere marchiato, nel corso di una trasmissione televisiva, come fiancheggiatore dei boss o come un infame esponente della borghesia mafiosa. Pensate: stava per finire nel calderone dei reprobi persino Gherardo Colombo, pluridecorato pm di Mani pulite, colpevole – all’occhio fanatico dei puri e duri – di avere sostenuto la necessità di rivedere, secondo il dettato costituzionale, la legislazione sul carcere duro. Apriti cielo: non poteva dirlo, non doveva dirlo.

Che la mafia ha perso e lo Stato ha vinto si può, dunque, solo pensare. Ma non si può dire. Il mito della mafia invincibile – quella del terzo livello, dei registi occulti, delle sporche trattative – è diventato ormai uno show business. Le tv ci marciano, ciascuna con la propria compagnia di giro, ciascuna con il proprio magistrato coraggioso e con il proprio scrittore di riferimento. E riescono pure a guadagnare qualche punto di share. Mettono in scena dei tribunali paralleli, certamente più veloci di quelli, lentissimi ma reali, che operano nei palazzi di Giustizia, e vanno avanti per ore e ore, sempre pestando la stessa acqua nel mortaio. Sono soddisfatti i conduttori e sono contenti anche gli ospiti, che in virtù delle tante apparizioni conquistano fette sempre più larghe di opinione pubblica, incantano circoli e uomini di buona volontà, appassionano le case editrici e vanno avanti tranquilli, senza freni, sicuri che prima o poi sforneranno pure uno, due, dieci libri.

Ma attenzione: la religione della mafia invincibile – e perciò eterna, perenne, perpetua, onnipotente – non alimenta solo il circo mediatico. Con i suoi eroi e i suoi santoni, con i suoi neofiti e i suoi predicatori taglia verticalmente anche la magistratura, andando ben oltre la naturale dialettica tra pubblici ministeri e collegi giudicanti. Diciamolo senza equivoci né fraintendimenti: non c’è procura – non solo in Sicilia, ma soprattutto in Sicilia – dove inquirenti e investigatori non danno l’anima per stringere all’angolo boss e picciotti, per recidere i loro legami con il potere, per riparare i torti e le violenze inflitte alla società civile, per stroncare i circuiti di affari e corruzione. Ma accanto all’antimafia che si rompe la schiena e lavora senza subire il fascino del palcoscenico c’è l’antimafia che vuole sempre andare oltre, che resta aggrappata ai propri teoremi, che guarda quasi con sdegno i risultati ottenuti sul territorio perché tanto non ci sarà verità se non si individuano prima i mandanti esterni delle stragi, se non si svelano le trame oscure che hanno ammorbato la vita della Repubblica, se non si smascherano i registi occulti, se non si alza il sipario sulle nefandezze dei servizi segreti, ovviamente deviati. Maurizio De Lucia, il procuratore di Palermo che ha coordinato le indagini per la cattura di Messina Denaro, lo ha detto apertamente: “C’è gente che non fa indagini da dieci anni e viene a dirci come si fanno le indagini”. E come dargli torto?

Mentre De Lucia e il suo vice, Paolo Guido, lavoravano giorno e notte con i carabinieri del Ros per mettere insieme i tasselli e arrivare al boss delle stragi, altri magistrati andavano per talk-show a sostenere con vigore l’imbattibilità della mafia. O, peggio, se ne stavano nei loro uffici a costruire processi mastodontici, a cercare nei colloqui con i pentiti una conferma delle loro tesi, a disegnare scenari apocalittici, a rimestare sospetti e inchieste già perdute nel tempo, a promettere verità e giustizia ai familiari delle vittime, a vestirsi da inquisitori coraggiosi e straordinari.

L’antimafia che predica l’invincibilità della mafia e svilisce sistematicamente il lavoro di chi smonta pezzo dopo pezzo il potere di Cosa nostra – “Da noi è sempre così”, ha detto De Lucia ai liceali del Gonzaga. “Se si vincono i campionati del mondo è perché qualcuno ha comprato la partita” – agisce in base a un principio: ingigantire il mostro Golia per fare in modo che i piccoli David impegnati nel combattimento appaiano sempre più eroici, indispensabili, intoccabili. Gli si concedono scorte che neanche ai capi di Stato; gli si riconosce un’autorevolezza capace di influenzare l’opinione pubblica: difatti, vengono quasi sempre arruolati dalla politica e portati in trionfo a Montecitorio o a Palazzo Madama. Loro non diranno mai che l’emergenza un giorno potrà finire perché quel giorno finirebbero anche i loro privilegi e quell’aureola di sacralità che accompagna ogni loro gesto, ogni loro discorso, ogni loro intervista televisiva.

Chi potrà mai contrastarli? Non certo il governo. Si è visto in questi giorni: solo l’ipotesi di mettere mano al 41-bis, nato nell’anno delle stragi e destinato per legge a sparire nel tempo, getta nella confusione maggioranza e opposizione, “ubriachi di disperazione”, per dirla con Philip Roth. Il ministro, assediato dal coro giustizialista, passa la palla di fuoco alla magistratura ma la magistratura la rimanda al Parlamento. E intanto nessuno decide. Lo stesso vale per l’ergastolo ostativo e i benefici carcerari. La Corte costituzionale chiede di rivederli perché il principio “fine pena mai” non rientra nei canoni dello stato di diritto, ma il Parlamento balbetta, annaspa, si smarrisce, non sa in che direzione andare. Se Carlo Nordio fa un passo, un piccolo passo garantista, e va in Parlamento a dire che il carcere è un luogo dove la dignità umana, anche quella dei mafiosi, dev’essere comunque salvaguardata – “La giustizia senza castigo è un’utopia, ma il castigo senza misericordia è crudeltà”, ammoniva il buon Tommaso d’Aquino – gli si alza davanti il muro dell’invincibilità della mafia con tutto il seguito di forcaioli e manettari, di destra e di sinistra. Il capo del governo invita a non surriscaldare la polemica, cominciano a pesare i sondaggi, i talk-show incalzano. Ed è subito paralisi.

Finirà? Giovanni Falcone, come si è detto, era certo, certissimo che in un giorno felice di chissà quale anno la mafia, come tutte le cose fatte dagli uomini, sarebbe finita. Ma oggi la sua parola sembra dispersa nell’aria come un vapore di cipria e profumo. Nessuno lo piglia di petto, ma sono pochi, pochissimi quelli che ancora coltivano la sua speranza. Tra questi c’è Maurizio De Lucia. “La cattura dell’ultimo stragista – sostiene il procuratore di Palermo – era un debito che la Repubblica doveva ripagare verso tutti quelli che sono caduti nella lotta alla mafia e in qualche misura quel debito è stato ripagato. E’ stato un bel giorno, un successo per tutta l’Italia. Abbiamo vinto tutti. I mafiosi hanno vissuto in passato nel mito dell’impunità: oggi questa regola è saltata”.

Per lui, come per i carabinieri del Ros, la missione non è ancora conclusa e ci sono ben altre montagne da scalare, altre fatiche da sopportare, altre indagini da sviluppare. “Per la mafia sapere che lo Stato non dimentica, ma continua a lavorare e li prende tutti, è un fatto importante, li indebolisce dal punto di vista della loro struttura: non sono più invulnerabili, sanno tutti che faranno la stessa fine di Matteo Messina Denaro”.

Un bel messaggio, non c’è dubbio. Ma anche De Lucia, come Nordio, è accerchiato dai santoni e dai soloni della invincibilità della mafia. Con una differenza: lui non è un magistrato prestato alla politica e non si lascia stordire.