Ho quasi paura a scrivere quanto segue, ma ne sono fermamente convinto. Mi farò molti nemici e, tra gli amici, molti non mi saluteranno neanche più. Pazienza. Il vero problema di Palermo e della Sicilia non è il traffico, le mafie o la disoccupazione e neanche la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Il vero problema è il cibo, arma di distrazione di massa, croce e delizia delle nostre vite dal colesterolo altissimo. Mangiamo troppo e non ci rimane tempo per pensare a tutto il resto, per vivere meglio nei nostri centri urbani, per migliorare la qualità della vita nell’ambiente che ci circonda, per conoscere persone interessanti, per leggere, conversare vis a vis, studiare, viaggiare.

Perdiamo troppo tempo nella ricerca di cosa ingurgitare, del posto in cui cenare, senza considerare quello necessario a cucinare, se restiamo in casa. E’ un vero e proprio assedio: programmi televisivi ci raccontano mille ricette, tutte fotogeniche e allettanti, per non parlare dell’immenso patrimonio gastronomico della tradizione siciliana: cannoli, arancine/i, cassate, caponate, pasta con le sarde, melanzane alla parmigiana, panelle, granite, grigliate di carne e di pesce, formaggi, e che diamine. E poi ancora corsi di cucina per mogli che non sanno friggere un uovo, degustazioni di vini, presentazioni di ristoranti, inaugurazioni di enoteche. Sì, perché mangiare, qui in Sicilia, serve a consolarci, a ingannare il tempo e a non affrontare i veri problemi.

Affoghiamo nel piatto e nei bicchieri le nostre frustrazioni, i desideri più intimi, la speranza di una vita più adatta al nostro modo di essere. La convivialità made in Sicily è un alibi per non pensare, per fuggire dalle responsabilità, per fingere una consapevolezza che in realtà non si possiede e di cui non ci importa un fico secco. Dalle tavole imbandite pontifichiamo, e con il bicchiere di vino in rosso in mano simuliamo una saggezza e una sensibilità i cui effetti si perdono col tracannare. Una messinscena, una finzione.

Ci addoloriamo per le tragedie della nostra amata terra nella pausa del desinare, in accompagnamento alle portate, in omaggio alla compiaciuta soddisfazione dell’avere qualcosa da mettere nello stomaco. Già al caffè ci siamo dimenticati tutto. Ma in Sicilia mangiano tutti e molto: persino i poveri sono obesi o in sovrappeso, come i ricchi. Gli uni e gli altri perennemente a dieta ma è una lotta immane. L’economia stessa dell’Isola è una economia gastronomica: si mangia a tutte le ore e ad ogni angolo di strada. Resistono solo i negozi dove si mangia e si beve. Gli altri, semplicemente, falliscono. Ora te lo portano anche a casa, il pranzo. Una vera e propria congiura. Aprono solo attività commerciali legate al cibo e alle bevande, e le palestre dove cercare di scontare la pena per le calorie indebitamente incamerate. Un circolo vizioso.

Riunirsi per discutere del futuro della città, per progettare un modo diverso di vivere i nostri spazi, per confrontarsi sui temi della politica, per parlare di libri, di arte, di musica, non è possibile se non attorno ad una tavola. E quello che dovrebbe essere un pretesto diviene la causa prima: mangiamo e beviamo, tutto il resto è secondario. Il cibo ci fa dimenticare persino la crisi sociale ed economica che ormai è strutturale. Fascismi e populismi ci alitano in faccia ma non ce ne accorgiamo perché gli effluvi del ragù fatto in casa prevalgono. Ci stanno togliendo tutto, diritti acquisiti, speranze, futuro e noi ci mangiamo sopra, per esorcizzare la paura. Per non parlare dell’assenza di quelle figure alte della cultura che un tempo – con la coerenza della propria vita e del proprio pensiero – ci indicavano una meta, un modello, la possibilità di una vita più piena e consapevole. Cosa pensano i maitre a penser locali? Dove sono gli intellettuali siciliani? Mangiano e tengono famiglia. ‘Cameriere, champagne’.