E’ lontana da me anni luce la difesa corporativistica a prescindere, a maggior ragione se parliamo di giornalisti: lì subentrano addirittura il pudore e la paura della retorica. Sono giornalista anch’io, che parole potrei usare senza correre il rischio dell’autoreferenzialità, sport in cui d’altronde la nostra categoria eccelle?

Ma qui, direte voi, stiamo parlando di libertà di informazione; di difendere l’autonomia della stampa dagli attacchi beceri – “puttane e pennivendoli” – lanciati da pezzi importanti del governo. Qui parliamo di intimidazioni, di bavagli, di censure preventive e dunque potrei anche essere autorizzato, come giustamente ha fatto la categoria compatta, a difendere quello che è stato il mio lavoro, e il modo in cui lo facevo, e in quale città e in quali anni. Ma non lo farò. Potrei anche citare al ministro i nomi di decine di giornalisti che in questo lavoro avevano creduto e per questo lavoro sono stati ammazzati davanti a mogli e figli piccoli.

Ma esprimerò invece un concetto piccolo e quasi insignificante, una cosa che m’è passata per la mente ieri sera, fulminea. Ve la dico in poche righe. Ho fatto questo lavoro per molto tempo e poi ho smesso. All’inizio il giornale, e la cronaca, e raccontare le cose come per esempio hanno fatto benissimo i miei colleghi pochi giorni fa a Casteldaccia, mi mancavano. Mi mancava tutto. Poi il tempo, come sempre succede, mi ha spento il fuoco e ho cominciato a pensare a questo lavoro come si pensa a una donna di cui sei stato innamorato e poi t’è passata. Con, al massimo, un po’ di tenerezza, come avrebbe detto De André.

A un certo punto ho addirittura provato fastidio, un fastidio magari irrazionale, a ripensare alla mia vita e al mio lavoro di prima. Un lavoro sopravvalutato, mi dicevo. Però.

Però le parole violente del ministro, lungi da me la lezioncina morale perché in fondo un po’ puttane lo siamo, un potere lo hanno avuto. Hanno risvegliato in me l’antica passione, mi hanno fatto sentire –
dopo secoli – orgoglioso del mio vecchio lavoro di cronista a caccia di notizie, facendomi tornare alla memoria i motivi per cui, da bambino, sognavo di fare questo mestiere. Scrivere e raccontare la vita della gente, scrivere delle cose e della gente, ficcare il naso e denunciare. Scrivere per sentirmi vivo e per farci restare vivi un po’ tutti. Scrivere per insegnare alla gente a leggere, a capire, a documentarsi, a non fidarsi, a ricordare, a parlare con proprietà di linguaggio. Per questo io Di Maio lo ringrazio, per avermi destato dal mio torpore qualunquista e avermi indotto ieri sera, con un movimento meccanico e quasi non voluto e magari un po’ scemo, a controllare se nel portafoglio il tesserino professionale c’è ancora. C’è ancora, Massaro Francesco, iscritto all’Albo il 22/9/1993. Quando un ministro ti allunga la vita.