L’impressione è quella che, con i tempi che corrono, fosse un testo necessario da riproporre sulla scena. Adesso. “Necessario, sì, è la parola giusta”, annuisce Roberto Andò che da una settimana prova al Montevergini La tempesta scespiriana al debutto nazionale a Palermo, al Teatro Biondo, il 7 dicembre, prodotta dallo Stabile palermitano (da fine aprile al Piccolo di Milano e poi lunga tournée per lo Stivale nella stagione 2019-2020). Lettura a tavolino, finora, ma tra pochi giorni si sale in palcoscenico. Renato Carpentieri protagonista (Prospero) e poi Vincenzo Pirrotta, Filippo Luna, Paolo Briguglia, Giulia Andò, Fabrizio Falco, Gaetano Bruno, Paride Benassai nel cast. Traduzione di Nadia Fusini che ha pure curato l’adattamento con lo stesso regista, scene di Gianni Carluccio, costumi di Daniela Cernigliaro, luci di Angelo Linzalata.

Partiamo da questa “necessità”, dunque.

“Anche se oggi più che mai necessaria, alla Tempesta penso da tempo. Addirittura dal mio primo film, Il manoscritto del principe, vent’anni fa. Mi ricordo che sul set, a Michel Bouquet, che era il protagonista, affiancato da Jeanne Moreau, leggevo passi dell’opera di Shakespeare perché per me Tomasi di Lampedusa era una sorta di Prospero, un uomo che prima di arrivare alla fine vuole trasmettere a qualcuno le regole della magia e sceglie due ragazzi a cui affidare il suo sapere. La stessa cosa mi è capitata più di recente allestendo Il flauto magico per il Teatro Massimo. Che cosa ci insegna l’opera di Mozart al di là dell’aspetto fiabesco? Che bisogna venir fuori dalle faide e diventare cittadini. Ecco, La tempesta è la commedia – perché di commedia si tratta per quest’ultimo capolavoro di Shakespeare che si riallaccia al romance inglese – della conciliazione, quella che ci insegna che dal naufragio ci si può salvare. Credo che l’idea del perdono di Prospero, dopo che gli è stato usurpato il trono, la sua rinuncia a una vendetta di rancoroso egoismo, sia la risposta più giusta a tutto quello che oggi ci arriva dalla società”.

Anche dalla politica, quindi, che sembra un gioco sempre più cinico tra usurpatori e usurpati.

“Ne vedo tanti, di usurpatori. Anzi, vedo solo usurpatori sulla scena della politica. Sono tutte voci stonate, è impossibile una qualsiasi armonia, nel governo, nell’opposizione… quale opposizione se usurpa gli stessi toni di chi sta al potere?”.

E’ questo il guaio dell’opposizione, oggi?

“C’è un momento bellissimo nella Tempesta in cui Prospero dice a sua figlia Miranda che forse ha dato il destro a suo fratello perché gli usurpasse il trono, in quanto troppo preso dai suoi studi. E’ una categoria umana, quella dei Prospero, sono uomini che peccano di curiosità e difettano di vocazione al potere, presi solo dai loro studi, appunto. D’altronde, il potere è una libido e se questa libido non c’è…”.

Chi potrebbe essere Prospero ai nostri tempi?

“Chi potrebbe, non so. Chi avrebbe potuto esserlo, forse. Ecco, Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica. E’ stato un uomo di studi e avrebbe potuto continuare ad esserlo se l’omicidio di Piersanti, suo fratello, non lo avesse messo davanti al bivio: e così da uomo di studi è diventato uomo della prassi, dall’impegno in politica al Quirinale. La sinistra si rammaricava per esempio che Pietro Ingrao non avesse avuto spazio nell’agone politico: ma anche in quel caso, Ingrao era più uomo di studi”.

La tempesta si svolge sulla stessa isola dove gli usurpatori – che vi hanno fatto naufragio – avevano esiliato l’usurpato col quale adesso si ritrovano a tu per tu.

“E’ l’isola che ti dà la sensazione di poterti salvare, dove è possibile riconciliarsi e ricominciare, dalla quale è possibile ripartire, tornare. Nadia Fusini, la mia traduttrice, dice di vederla come una sorta di ‘spa’ dove si cura una certa idea del potere”.

Sembra anche la commedia dei congedi.

“Lo è. Il congedo di Shakespeare dalla scrittura, quello di Prospero da sua figlia Miranda, da Ariel, da Calibano, dal suo mondo, insomma, una nostalgia molto forte pervade tutto il testo. Prospero sa di essere alla fine e per questo rinuncia alla magia, sotterra la bacchetta. Da uomo maturo, da padre, è una sentimento che provo anch’io. Prima o poi, è naturale passare il testimone”.

Al di là di questa sensazione, cos’altro bolle in pentola?

“Vorrei poter realizzare come serie tv quello che era il progetto cinematografico sul giornale L’Ora che dovevano coprodurre Peppuccio Tornatore e Medusa. Poi quest’ultima si tirò indietro perché oppressa dall’impegno finanziario del lodo Mondadori che la costrinse a fare solo opere di cassetta. Non demordo, la sceneggiatura è già pronta, scritta insieme con Ciccio La Licata e Angelo Pasquini. Poi mi ha chiamato Giorgio Ferrara per inaugurare il Festival di Spoleto ma del progetto non vorrei parlare. E c’è ancora l’opera di Ludovico Einaudi, Winter Journey, che debutterà al Massimo nell’ottobre 2019. E poi forse un nuovo libro…”.

Quel sentimento nostalgico mi pare che alimenti una certa bulimia, però: per essere un’artista che si è sempre centellinato…

“Vero, non sono mai stato così attivo, frenetico, creativo come in questi ultimi anni. Come se avessi urgenza di dire tante cose, e con strumenti diversi: ma c’entra proprio quel sentimento, è un effetto legato agli anni che vedi passare ormai veloci, è legato all’età. Nel senso migliore del termine, intendiamoci”.