C’è un distinto signore di 82 primavere, un canuto e celebrato poeta della nostra musica popolare che, alla sua veneranda età, dopo aver raccolto per 60 anni successi su successi, ha voluto lanciarsi in una nuova avventura: scrivere i versi di un’opera lirica. Al secolo fa Giulio Rapetti, in arte Mogol. Il lavoro – La Capinera – debutta  il 9 dicembre al Teatro Massimo Bellini di Catania, lo spartito è di Gianni Bella, autore nonché interprete di famose canzoni che ci hanno accompagnato dagli anni Settanta, il libretto è scritto da Giuseppe Fulchieri, eclettico artista che spazia dalla musica al cinema, l’orchestrazione di Geoff Westley , mago degli arrangiamenti di moltissimi concerti pop (ultimo quello in tour di Baglioni), la regia di Dante Ferretti, tre volte Oscar per le sue magie scenografiche sul grande schermo ma anche esperto e appassionato regista di melodrammi su palcoscenici internazionali.

Con questo po’ po’ di crediti, La Capinera – tratta da Storia di una capinera di Verga – sembra destinata a fare rumore. Ieri è stata presentata a Roma dal sovrintendente e dal direttore artistico del Massimo etneo, Roberto Grossi e Francesco Nicolosi. Ma gli occhi di tutti erano puntati sull’ “esordiente”.

Mogol, un debutto tardivo…

“E’ la prima volta che scrivo versi per una storia inventata da altri ma come resistere alla bellezza della vicenda raccontata da Verga?”.

L’avranno ispirata anche la musica di Bella e il libretto di Fulcheri…

“All’inizio li ho – come dire? – rispediti a casa, sono stato diffidente. Sono arrivati al Cet (l’accademia musicale che Mogol ha creato in Umbria, ndr.) e mi hanno proposto questa collaborazione. Ho chiesto a Gianni: ‘Ma tu che cultura operistica hai?’ e lui mi ha risposto con grande sincerità che non ne aveva nessuna. Ho rifiutato. Sei mesi dopo tornano alla carica con l’overture già scritta e una serie di romanze cantante da Michele Pertusi, uno dei più grandi basso-baritono in circolazione oggi nel mondo, accompagnato dall’orchestra del Teatro Regio di Parma. Chiara, la figlia di Gianni, diplomata in clarinetto in conservatorio, mi spiegava passo passo la storia, le note scritte dal padre, il libretto di Fulcheri perché io, il racconto di Verga, non l’avevo mai letto. Insomma, ho deciso di buttarmi nell’avventura”.

Quali parole si usano per una musica del ventunesimo secolo che narra una vicenda di due secoli prima?

“Quelle di oggi, il linguaggio di tutti i giorni. Io ho sempre lavorato con una sorta di automatismo, facendo aderire alla musica le parole e facendo in modo che le parole fossero sempre aderenti alla vita. Certo, stavolta non dovevo inventarmi una storia, la storia c’era già. E per me, ripeto, è stata la prima volta”.

Opera moderna, sta scritto: di solito l’esito di queste operazioni ha un che di ibrido.

“Evitiamo etichette, classificazioni. Semplifichiamo. Diciamo opera e basta, un’opera del 2018. Qui si sente il gusto per l’innovazione. Certo, c’è dietro la formazione di un compositore come Gianni ma la scrittura delle romanze credo che per gran parte sorprenderà. Le ho fatte ascoltare a musicisti, a sovrintendenti, a direttori artistici: nessuno ha arricciato il naso, si sono tutti compiaciuti”.

Il momento più bello de “La Capinera”.

“L’incontro di Maria col padre: lei, entrata novizia in convento a sette anni, lo rivede solo quando ne ha diciannove. Mi commuove sempre”.

Mai avuto un dubbio, un tentennamento in questa impresa?

“Ho la carriera che ho, sono viziato dal successo, è vero, ma questo non vuol dire che debba precludermi nuove sfide. C’era il gusto di una nuova avventura, una musica e una storia davvero belle, la scommessa di confrontarsi per la prima volta con un soggetto scritto da altri, sarebbe stato sciocco dire di no”.

Ne ha detti tanti di “no” in 60 anni di mestiere?

“Credo solo uno”.

Fuori il nome del musicista a cui si è negato.

“Se glielo dico, quasi non ci crede…”.

No, non mi dica… Battisti.

“In realtà non fu un ‘no’ perché poi accondiscesi e buttai giù le parole. Ma la canzone era talmente brutta che all’inizio rifiutai. Lucio mi pregò: dammi almeno il titolo. Il fuoco, gli risposi. Perché?, mi chiese. E io: perché dovresti bruciarla”.