Chissà perché ritorno sull’argomento del libro dalla collega Boccassini. Sarà perché sono colto – come lei – nell’insostenibile leggerezza di un passato che non è mai trascorso. O, forse, perché – allo stesso modo – ho vissuto quel periodo cercando (inutilmente) di riuscire a non farmi travolgere dalla violenza della Storia. O, ancora, perché alcune dinamiche di quegli avvenimenti mi sembravano inumanamente impenetrabili (come ancora lo sono oggi…). L’idea che ci accomuna è quella che vi può essere un futuro solo e soltanto quando si è data una sicura ricostruzione del passato.

Insomma, non vi terrò molto su questa introduzione che tutto vorrebbe dire e nulla afferma. Ma qualcosa mi ha indotto a rileggere per la terza volta il suo libro e, solo adesso, mi accorgo che alla mia mente nasce – preponderante – una domanda. Non vi dovete stupire del ritardo con cui vi sono arrivato. Infatti – come asseriva il vecchio Albert Einstein – nel metodo scientifico la cosa più difficile non è dare la risposta ma formulare, dentro sé stessi, la domanda. La domanda presuppone un patrimonio di conoscenze e riflessioni che, se non possedute, ne rendono impossibile la formulazione.

La faccio finita con la filosofia epistemologica e vado dritto al quesito: “Ma se la Boccassini – come afferma – aveva avuto una relazione sentimentale con Falcone, come mai si propose e fu scelta per coordinare le indagini sulla strage?”. Chiunque altro, in questo Paese, avesse preso un interesse diretto e personale su un processo (anche per fatti di minore gravità…) sarebbe stato schiantato. Ebbene, come mai nessuno si chiede in qual modo tutto ciò possa essere accaduto?

La collega Boccassini sembra giustificare il tutto con la perplessità che allora la colse. Davvero doveva essere un dubbio amletico per un magistrato che bene sapeva che l’unica cosa da fare – in rispetto del Diritto, della procedura e (last but not least) della Ragione – era astenersi. Ma una voce – autorevole, importante e non ben specificata – le avrebbe suggerito di trasferirsi a Caltanissetta ed indagare. A meno che non si tratti delle voci che Giovanna D’Arco udì per condurre i francesi alla vittoria, sarebbe bene che – in nome della Verità – la narratrice rivelasse il nome del “vociatore”. D’altronde, non è l’ansia di Verità che avrebbe ispirato la scrittrice a raccontare particolari estremamente intimi di quel tempo?

A meno che non si voglia pensare ad una verità a singhiozzo o, peggio, ad una verità di quelle in cui il narratore decide cosa sia giusto raccontare e cosa no. Era questa un’idea cara a Giulio Andreotti che confezionò l’aforisma secondo cui “il diritto alla verità è solo di coloro che alla verità hanno diritto”. Vi sto complicando le idee e, quindi, mi fermo qui.

Però sarebbe ingiusto lasciarvi senza una conclusione di questa riflessione nata “come voce dal sen sfuggita”. Non so perché, ma la collega Boccassini tanto mi fa pensare alla Fiorella Mannoia e non per quello che, banalmente, potrebbe accostarsi alla rossa capigliatura. L’associazione nasce nei miei pensieri perché, in un suo testo, la famosa cantautrice allude alla complicazione degli animi sensibili delle donne. “Siamo così… dolcemente complicate…”. Con una differenza: la ricostruzione della Boccassini è amaramente complicata dal suo contorsionismo storico che pone lei stessa come novella Giovanna D’Arco italiana. Il resto del mondo è nemico in quella che proprio Giovanni Falcone definiva sindrome da accerchiamento.

Però, se non crediamo alle mistiche voci di dentro, qualche ragionevole chiarimento la narratrice dovrà pur darlo al Popolo italiano nel nome del quale ha svolto la sua funzione…