La città che inalbera pennacchi che non ha (la più europea, la più sicura, la più multirazziale, la più interculturale, la più ricca d’eventi, la più-più-più, insomma, con una negazione dell’evidenza che è già letteratura psicoanalitica, con una faccia tosta tale da riuscire ad attestarsi anche un assessorato al Decoro, laddove decoro non c’è) s’è ficcata nel rodomontesco copricapo un pennacchio in più, una piuma che dovrebbe esser nera, stante la circostanza, potrebbe forse essere d’Uccello del Paradiso se qui non si trattasse dell’Inferno, l’Inferno del Cimitero dei Rotoli. La cui dizione esatta sarebbe Santa Maria dei Rotoli ma i palermitani per furia abbreviativa lo chiamano solo “ai Rotoli”, cassando dal nome la Vergine Maria che da qualche tempo sarà sicuramente ben lieta d’essere stata messa da parte. Perché “i Rotoli” sono diventati il più triste paradigma della città stessa, doloroso e cinico al tempo stesso.

Ai Rotoli dunque – il camposanto con 1340 bare insepolte, accatastate da anni l’una sull’altra in 14 fatiscenti e putrescenti bunker di plastica – gazebo, li chiamano: fuochi fatui e colatura di cadaveri – si sono inventati il nuovo pennacchio: l’Imbellettamento della Morte. Squadre di operai escono una alla volta le casse, alcune ormai in condizioni di quasi intoccabilità per deterioramento dei resti organici, cercano di pulirle come meglio possono, strofinano stracci con prodotti adeguati a cancellare o quantomeno a nascondere il più possibile la vergognosa dimenticanza, passano qualche mano di vernice per restituire dignità al legno quasi sempre marcio, per riconsegnare alla dignità perduta quelle salme. Vano, almeno quest’ultimo tentativo ché nessuna “vetrina” potrebbe risanare il disonore arrecato a quelle spoglie. Sepolcri imbiancati, si direbbe con una citazione se il colore non fosse per la maggior parte mogano o noce scuro.

Ogni anno, il 2 novembre, c’è l’usanza, ricordava il poeta. E alle usanze gli amministratori della città tengono: ai Defunti del 2 novembre non meno che al Festino del 14 luglio. E dunque, questa della commemorazione di chi sperava di passare non soltanto con l’anima a miglior vita ma sì è invece visto costretto a un indegno supplemento terreno, era una data sottolineata a più linee di penna, marcata dall’evidenziatore nel calendario di Palazzo delle Aquile. Che ha certo ereditato dai governanti passati questo oltraggio ma si è mossa finora per passetti, balbettii, toppe inadeguate a coprire lo squarcio. E che adesso ha dato ordine di imbellettare la morte, di approntare un maquillage quasi necrofilo dell’ultimo minuto. Pare abbiano un gran da fare, in questi giorni, gli estetisti dell’ultraterreno, una ditta specializzata nel macabro restyling. Ma è una corsa contro il tempo, un trucco che non può occultare l’inganno (perfino la morte, a Palermo, è una tragedia che si annacqua nella mistificazione del grand opéra), non può rabbonire la collera e placare la pena.

Ma si sa, l’importante è apparire, sembrare, somigliare a qualcosa che sia civiltà o che quantomeno vi si avvicini: specie se, si sospetta, il 2 novembre, a osservare quello strazio inutilmente sottoposto a una lugubre cosmesi, non saranno soltanto gli occhi umidi dei parenti ma lo sguardo vigile, sollecito, replicabile delle telecamere di una nota rubrica della Rai, quelle cosiddette “al servizio del cittadino”. Palermo che, per tradizione e culto, celebra i Morti quasi meglio del Natale, può forse presentarsi cattiva e smemorata ai telespettatori, può non apparire bella? Non può certo vergognarsi di miserie o inefficienze, deve vantarsi di magnificenze anche nella sua vocazione alla misericordia. Misericordia, ecco: trovata la nuova biacca, il fondotinta giusto, il miracoloso fard che può occultare la più penosa delle rughe. Che il requiem si trasformi in marcia, che la città sfili in parata inalberando anche questo, tra i pennacchi che non ha.