Quando me ne sono andata da Palermo non mi sono voltata indietro. Con la mia macchina piena zeppa di valigie, di delusioni e di speranze, sono salita su quella nave diretta a Genova e sono andata. Andavo incontro a un lungo viaggio di 22 ore e non vedevo l’ora di arrivare.

Quando me ne sono andata da Palermo non mi sono voltata indietro perché ero stanca di questa città e della sua staticità. Dei suoi problemi irrisolvibili e delle sue eterne contraddizioni, del suo caos e delle sue incertezze. Non avevo più niente e nessuno da perdere e sono andata.

Volevo mettermi alla prova, sperimentarmi, conoscere i miei limiti e le mie potenzialità. Arricchirmi, confrontarmi, crescere. E, in effetti, le prime risposte alle mie domande sono arrivate quasi subito.

Quando me ne sono andata da Palermo non credevo che al primo colloquio a Milano mi chiedessero di “non restare incinta” per i primi 6 mesi di contratto. Non credevo che i miei capi “del Nord” mi chiedessero di “sorridere meno” per avere più credibilità con i clienti, o mi dicessero di essere “troppo giovane” o “troppo carina” per dimostrare la mia professionalità. Mi sono sentita ripetere decine di volte che qui (al Nord) le regole sono un po’ diverse dalle nostre (e, ovviamente, migliori). Che noi siciliani siamo “più socievoli” e “meno produttivi”. Che ci perdiamo in chiacchiere e che “non abbiamo mai avuto la cultura del lavoro”.

Da quando me ne sono andata da Palermo, ho imparato che l’accezione prima del termine “terrone” non è “colui che lavora la terra”, ma colui che a Palermo chiameremmo anche “tascio”. Sì, esatto. Il terrone, per i polentoni (permettetemi questo appellativo) è il tascio, il tamarro, l’ignorante, lo zoticone, il nullafacente. In sostanza, uno scimunito dai gusti discutibili. Dunque, quando noi diciamo a qualcuno “non fare il cretino”, loro dicono “non fare il terrone”, oppure “non fare ‘ste tasciate” diventa “non fare queste terronate” e così via. Un’offesa a tutti gli effetti.

Ancora oggi, dopo più di un anno al Nord, frasi di questo tipo si infilano nel mio stomaco come lame che, piano piano, mi feriscono e mi fanno riflettere. Mi fanno male e mi spingono ad andare avanti e a chiedermi: è davvero così? Ma noi la cultura del lavoro ce l’abbiamo? Ora, è pur vero che uno dei motivi per cui ho lasciato Palermo riguarda indubbiamente il lavoro e i soldi. Perché, si sa, nella mia città quando qualcuno ti paga per il tuo lavoro, sembra quasi che ti stia facendo un favore. Era normale amministrazione chiedere ogni mese che fine avesse fatto il mio “stipendio” (che poi stipendio non era, considerato che fatturavo). L’umiliazione la ricordo ancora ora. E come permettermi una casa in affitto con i soldi che un mese ci sono e un mese non si sa? Eppure si lavorava sempre, con la paura che la “tua” azienda (tua perché poi diventava parte di te) chiudesse i battenti da un momento all’altro, con la consapevolezza che quello che stavi facendo con tanta passione e dedizione, non ti avrebbe portato altro che precarietà su precarietà, insicurezze su insicurezze, nero su nero, zero speranze e tanta disperazione. Noi la cultura del lavoro ce l’abbiamo?

Ma da quando me ne sono andata da Palermo, la mia città la cerco ovunque. Mi mancano le sue eterne contraddizioni, il suo caos e le sue incertezze; i suoi odori e i suoi colori, le sue strade e la sua gente. Mi manca soprattutto il suo conforto, dolce e riservato, che arrivava al momento giusto con il sorriso di uno sconosciuto, con l’odore delle panelle o del sugo della nonna, con il brusìo dei locali del centro, con le urla della Vucciria, con le strade che percorrevi a memoria e che – senza rendertene conto – ti portavano a destinazione. Quelle strade che parlano di ricordi, di storia, di vita. Piena di vita com’è Palermo, povera di lavoro com’è Palermo.

Adesso, da quando me ne sono andata da Palermo, non mi volto più indietro. Noi mi voglio voltare più indietro, voglio guardare avanti e sperare ancora…