La ballata delle vanità, ma anche quella della Cirinnà. Perché proprio la Cirinnà? E non Raciti o Cracolici? Non è un fatto di territorialità. Semmai di nazional popolarità.

Perché lo scudo biondo in campo largo della senatrice è, forse, la fotografia più netta e attuale del Partito democratico. Il partito che, con vari innesti, ulivi e margherite in primis, discende per li rami dell’epopea della sinistra italiana, un tempo la più forte in Occidente.

Non per niente Monica Cirinnà è paladina dei diritti civili. E’ la prima firmataria della legge 76 del 2016 sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” che, infatti, porta il suo nome. Sull’onda di quel successo disse che “la stagione dei diritti” non era che all’inizio. Si riferiva al matrimonio egualitario, alle adozioni per le coppie dello stesso sesso e per i single, alla parità di genere, ai diritti della comunità Lgbtqi+ che la nominò più volte “madrina” in occasione di Gay Pride.

La guerra in Ucraina ha portato alla luce il business degli uteri in affitto, da tempo fiorente in quel paese. La senatrice dem, in linea col suo partito, ha auspicato una visione “il più possibile laica” sulla maternità surrogata, specificando: “dove regolamentata in modo limpido e tutelato”,

Per farla breve Cirinnà ha dimostrato di avere a cuore tutti quei diritti civili che, secondo il segretario Letta, “sono nel Dna del Pd” e fanno parte dell’odierno programma elettorale. Anzi. Assieme alla legge sul fine vita, al Ddl Zan, alla legalizzazione della cannabis, allo ius scholae per i bambini stranieri che studiano in Italia, sono priorità assolute per il principale partito della sinistra democratica e progressista. Anche a costo di sostituire nell’immaginario collettivo – ma solo nell’immaginario, però – i soliti temi sociali che riguardano tutti i cittadini italiani, a cominciare dal diritto al lavoro su cui è fondata la Repubblica.

Non solo diritti civili. Monica Cirinnà ha sfoderato “occhi di tigre”, secondo i desiderata del leader maximo pro tempore del Pd. Ma è vegetariana e si batte per la tutela degli animali. Anzi, proprio dei felini.

Un biondeggiare spavaldo, il suo: “Porto avanti temi difficili con coraggio”. Un autodefinirsi “scomoda” che fa da sfondo a una serie di cinguettanti hashtag. Parole chiave che per caso cominciano tutte per C, come #Cirinnà.

Nonostante l’amore della senatrice per i gatti, per i diritti delle colonie di gatti che popolano le rovine archeologiche di Roma, i primi hashtag a lei collegati sono #cuccia e #cane.

Non Enrico Cuccia, che pure ci starebbe. Ma proprio la cuccia del cane ai margini della “proprietà” di famiglia, un’azienda biologica vinicola ed agricola di 136 ettari a #Capalbio, nella Maremma toscana. Proprio Capalbio, luogo simbolo della superiorità morale delle élite di sinistra. Degli aperitivi a chilometro zero, ci mancherebbe. Delle chiacchiere relative agli “happy few” al calar del sole tra mare e vigne, “delle lune dolci e amici mediocri”, avrebbe detto Mastro Gesualdo Bufalino.

In quella cuccia il 21 agosto 2021 sono stati ritrovati per caso 24 mila euro, abbandonati da chissà chi e non si sa per quale ragione. Un rinvenimento insolito da parte dei lavoranti della CapalBIOfattoria – certo non sarà stato il cane ad accantonare 48 banconote da 500 euro ciascuna – con richiesta di intervento e indagini da parte delle forze dell’ordine.
Preoccupatissimi i proprietari della tenuta, Monica Cirinnà e suo marito Esterino Montino, già senatore del Pd e attuale sindaco di Fiumicino, definiti da Tommaso Labate sul Corriere: “due calibri pesantissimi del progressismo capitolino comunista prima e post-comunista dopo”. Comunque una coppia da lungo tempo votata a dare risposte democratiche ai bisogni della gente. Una vita da coniugi dove il personale si intreccia col politico. Una coppia che, nonostante il timore di trovarsi malacarne “ai margini della proprietà, in un luogo non visibile dall’abitazione” o anche solo spacciatori in transito per la Maremma, davanti agli accadimenti si ritrova a incassare striminzite solidarietà da parte dei compagni di partito e battute “fuori dal seminato” sui social. Addirittura l’azzardo del confronto tra i 24 mila euro trovati nella loro cuccia e i più famosi 24 mila baci della coppia Adriano Celentano – Claudia Mori.

Poveretti, è il caso di dire. Ritrovarsi protagonisti di un intrigo. Che Monica Cirinnà ha contribuito a ingigantire con le sue stesse dichiarazioni, creando un nuovo hashtag nazionalpopolare: #colf. Che lei chiama senza remore: “cameriera”.
Il cronista Labate registra e pubblica il Cirinnà pensiero: “Ero già nei pasticci di mio, nelle ultime settimane. Nei pochi giorni di ferie, cinque per la precisione, sto facendo la lavandaia, l’ortolana, la cuoca. Tutto questo perché la nostra cameriera, strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps, ci ha lasciati da un momento all’altro. Volete sapere il motivo? Mi ha telefonato un pomeriggio e mi ha detto, di punto in bianco: “Me ne vado perché mi annoio a stare sola col cane”.

E per spiegare al lettore del quotidiano le distanze tra la cuccia e l’abitazione, Cirinnà prende come esempio il Senato, il suo luogo di lavoro. “Faccia conto – dice la senatrice al giornalista – che la casa sta alla buvette come la cuccia al bar di Sant’Eustachio”. Bar tra i più fighi di Roma, che, certo, paga i contributi di legge ai dipendenti.

Ecco, le parole della Cirinnà biondeggiano dritte come spighe nel campo di grane del Pd. O per spiegarle c’è bisogno della maestria di un attor comico come Corrado Guzzanti che coi Canti dell’Olgiata, quartiere altoborghese della capitale, aveva intuito la tendenza di sistema già più di dieci anni fa? Nonsense ricchi di sottotesto da manuale di antropologia culturale. Strofe da citare a memoria: “Signora mia, la cameriera non mi fa l’argenteria. Però i contributi li ha voluti. Mica vanno a minuti”. Avete presente quando si dice: “Gauche caviar”?

E poi uno si chiede perché il Pd si trova a gestire un #caos elettorale tale che neppure Mao, che di comunismo se ne intendeva di certo, e per di più era quello di una volta, troverebbe la situazione eccellente.

Letta, che pure è stato presidente del Consiglio dei ministri fino all’agguato del #StaiserenoEnrico, ha gettato il cuore oltre l’ostacolo con largo anticipo, nonostante la riduzione dei seggi, circa il 30 per cento dei parlamentari in meno, e nonostante la legge elettorale (approvata nel 2017, relatore il deputato Rosato, allora nel Pd) che non sembrerebbe aiutare questa volta i democratici.

Risultato: un campo di grane. Con antagonisti politici avvisati per tempo e in grado di preparare contromosse. Con territori e federazioni democratiche in rivolta. Tra sommersi e salvati, impresentabili e paracadutati in luoghi che ne avrebbero fatto volentieri a meno. Poi ci sono gli esclusi e i rinunciatari, perché basta farsi due conti per capire di non essere eletti.

La campagna elettorale, come la rivoluzione, non è un pranzo di gala. Per di più con un segretario che nel casting per il Parlamento si è dato una regola alla Sylvester Stallone nel film “Rocky Balboa”. Una cosa da pugili. Insindacabile da chiunque altro. Guardare tutti i possibili candidati diritto negli occhi per mettere in lista solo chi mostra “occhi di tigre”.

Pazienza se il phisique du role di Enrico Letta è assai distante da quello di uno Stallone qualunque. Ma perfino da quello dello zio Gianni, braccio destro di Berlusconi. Gianni Letta, il quale, come il Conte zio dei “Promessi sposi”, è imbattibile nell’arte machiavellica del simulare e dissimulare.

Nel falò delle verità brucia anche la percezione della realtà. Altro che coltivare “rancori che continuano a dominare i cicli politici del Partito democratico”, come denuncia l’ex segretario regionale del Pd in Sicilia, Fausto Raciti, un altro tra gli esclusi. Con un affondo sui cognomi d’arte. “Ultimo dei Mohicani – scrive Raciti – il partito mi ha permesso un percorso politico così bello senza che io venissi da una famiglia dal cognome o dal reddito importante”.

Ma torniamo alla Cirinnà, a cui è toccato un #collegio a lei non gradito. D’impulso, pensando di rinunciare alla corsa, ha dichiarato: “sono territori inidonei ai miei temi”.

Chissà, forse abitati da famiglie tradizionali che magari non avranno gradito di essere considerate “inidonee” dalla candidata progressista.

Il giorno dopo, però, la senatrice uscente ha corretto il tiro e ha twittato: “Accetto collegio difficile, come gladiatore. Non è ripensamento per interesse, è amore per la comunità. Tiro fuori gli occhi da tigre, ma lo faccio solo per loro. Combattere come l’ultimo dei gladiatori è l’unico modo per non sottrarmi alla battaglia”.

Poi, in un altro tweet: “Ho scelto la strada del coraggio. Correrò nel collegio difficilissimo che @pdnetwork ha scelto. Combatterò per ogni persona che si sente sola, invisibile, non riconosciuta”.

Chissà. Magari travolta dal redde rationem che agita le acque dem, avrà colto il suggerimento di Javier Marías, lo scrittore spagnolo di “Domani nella battaglia pensa a me”.