A settembre, Giovannino comincerà a frequentare la prima classe del Liceo Classico, quella che per molte generazioni, compresa la mia, era la “IV ginnasio”. Per noi, del resto, non esisteva il dirigente scolastico, con i suoi affanni burocratico-aziendali; al suo posto c’era una figura ottocentesca chiamata “preside”, o per meglio dire “signor preside”, un concentrato naturale di autorevolezza e di buon senso, cui era chiesto di dare un’impronta e un orientamento alla comunità scolastica, senza la necessità di asfissianti, martellanti richiami all’ipertrofica decretazione del ministero. In un certo senso, i giovani italiani di allora ritrovavano nella scuola una famiglia più grande, senza il familismo, capace di promuovere ascensioni di merito attraverso le classi in cui era, ed è ancora, stratificata la società del nostro paese.

Temo che questo meccanismo si sia inceppato e che la famiglia biologica sia tornata a contare di più nel determinare il destino umano e professionale dei nostri figli: chi in casa trova stimoli, risorse, buoni libri e opportune relazioni, procede spedito; chi non dispone di questo iniziale peculio, stenta e, solitamente, rimane fermo al livello di partenza. La scuola del passato, persino durante il ventennio fascista, era in grado, con le sue sole forze, di trasformare il figlio di un contadino delle aspre campagne dell’entroterra in un prestigioso e colto professionista, in un intellettuale avvertito e responsabile. La scuola di oggi, dopo tutte le velleitarie e informi riforme, con i suoi bilanci di competenza, i suoi profili, i suoi moduli didattici, il suo gergo intriso di anglismi e tecnicismi barbarici, le sue ruffianesche aperture al territorio, i suoi cedimenti alla cultura del profitto, le sue schede di valutazione, la sua didattica digitale, riesce ancora in quel miracolo? Riesce a produrre una classe dirigente consapevole e all’altezza delle spaventose sfide del tempo presente? Anche soltanto a giudicare dall’italiano spento, opaco, insignificante esibito da chi ricopre ruoli di responsabilità, direi di no. La lingua è lo strumento principale di ogni progetto sociale e con questo italiano non si va da nessuna parte; si campicchia, si possono fare “presentazioni” usando le “slide”, si possono scrivere ambigui decreti d’urgenza, si possono concedere interviste per commentare l’ultimo immane disastro, aggravandolo.

A proposito della deriva della scuola italiana, un mio amico insegnante ieri mi diceva, con amarezza, che l’esposizione dei docenti ad un’incresciosa quantità di adempimenti formali e inessenziali, rischia di indurre una mutazione nelle attitudini psicologiche e culturali di chi, per fare bene il lavoro per cui è pagato, dovrebbe essere lasciato spiritualmente libero di coltivarsi e di ispirarsi, e non essere ridotto al ruolo del disciplinato traduttore delle teorie accreditate dai grandi strateghi di viale Trastevere e localmente spacciate dai lussuosi professionisti dell’aggiornamento.

Nell’immediato dopoguerra, molte dignitose famiglie agrigentine, infebbrate di modernismo, svendettero ai rigattieri, per poche lire, i solidi mobili di casa, frutto dell’abilità di valenti ebanisti, per sostituirli con suppellettili industriali di compensato e di formica. A me sembra che qualcosa di simile sia accaduto alla nostra scuola, negli ultimi trent’anni, e che nessun vantaggio trarremo dall’avere sostituito le finestre di buon legno massello, che al più necessitavano di una vivificante mano di vernice, con tetri infissi di alluminio anodizzato.