Tra i parlamentari che “si muovono in autonomia rispetto ai partiti”, che hanno convinto Stefano Candiani a proporre l’abolizione delle preferenze per le prossime Regionali, c’era (probabilmente) anche Marianna Caronia. Proprio ieri, la deputata palermitana ha annunciato l’uscita dal gruppo della Lega all’Assemblea regionale e il ritorno al Misto. E’ stata questa la prima conseguenza delle parole del segretario del Carroccio, che non ha mai sopportato i contorsionismi della politica siciliana. E vorrebbe importare il suo modello anche a Palermo. Il risultato è che la pattuglia si è già dimezzata: fuori Caronia e Bulla, restano Ragusa e Catalfamo. Le parole di Candiani hanno avuto un effetto devastante anche per il centrodestra: sia ‘Ora Sicilia’, Totò Lentini si è detto sconcertato, che gli autonomisti (gli unici ad essere rimasti ancorati al tentativo di federazione proposta da Salvini) si sono dissociati in maniera forte e perentoria dalla proposta di mandare avanti i ‘nominati’: “In pratica sarebbero i partiti, o meglio, i capi dei partiti, a decidere gli eletti. E’ una visione padronale, aristocratica e anche oligarchica della politica” è stato il commento di Carmelo Pullara.

Ma se per curare le ferite della coalizione di centrodestra c’è tempo e modo, qui a vacillare è il gruppo della Lega all’Ars. Giusto qualche settimana fa il Consiglio di presidenza ha approvato una deroga per la sua costituzione ufficiale. Servirebbero quattro deputati, ce n’erano tre, e adesso sono diventati due. Per di più, suggeriscono alcuni addetti ai lavori, la loro fedeltà non è nemmeno così scontata. Orazio Ragusa – è risaputo – non ha digerito affatto che gli sia stato sfilato da sotto il naso l’assessorato all’Agricoltura (con lo staff già “infiocchettato”), durante il rimpasto che ha portato in dote al Carroccio “soltanto” i Beni culturali. E lo stesso Antonio Catalfamo, in passato, è stato beccato da Candiani per essersi mosso in solitaria nella ricerca della migliore alleanza su Barcellona Pozzo di Gotto, condivisa col capogruppo di Forza Italia, Tommaso Calderone, senza passare dai vertici.

Vertice è una parola che torna spesso e dà fastidio. Laddove il vertice è proprio il senatore di Tradate. Candiani vorrebbe rivoluzionare il modo di fare politica: vietando l’ingresso ai cambia casacca (ma tutti le new entry arrivano da esperienza centriste, da Lombardo a Forza Italia), e imponendo la moralità a tutti i costi. Un approccio che l’ha mandato più volte gambe all’aria. Alcune dichiarazioni lo dimostrano. Il tentativo di riformare il sistema elettorale – secondo Marianna Caronia – sarebbe la “conferma” e l’espressione “di una cultura e di una visione “non molto democratica” della politica della Lega, rispetto alla quale ho già espresso più volte fortissime perplessità. Mi sono quindi amaramente resa conto che questa concezione verticistica – ha sottolineato – è insanabilmente molto distante dai miei ideali politici e dalla mia storia politica e personale”.

Candiani se l’è cavata dicendo che “erano mesi che ogni pretesto era buono per creare tensione. Se cambiare quattro gruppi in due anni e mezzo è cosa per lei normale, posso solo augurarle buona fortuna. Però, non confonda le sue esigenze personali e quelle dei suoi amici con la democrazia”. Ma alla propria storia personale, e alla gestione un po’ troppo militaresca, faceva accenno anche Giovanni Bulla, che se l’è data a gambe dopo pochi mesi di militanza: “Con Candiani – disse il parlamentare etneo, tornato all’Udc – ho avuto sempre un rapporto di reciproco rispetto. Poi è anche vero che la Lega ha una struttura verticistica che poco si coniuga con quello che è stato il mio modo di fare politica”.

Le nomine recenti sembrano andare in direzione opposta: Candiani, infatti, ha affiancato alla sua figura da proconsole quella di due vicesegretari (Di Giorgio, sindaco di Chiusa Sclafani, per la Sicilia occidentale e Fabio Cantarella, assessore di Catania, per quella orientale). E ha rimpolpato la squadra con la scelta di due coordinatori agli enti locali: Maricò Hopps sul versante palermitano e Matteo Francilia, sindaco di Furci Siculo, su quello opposto. Una sfornata di ruoli e responsabilità che non cancella il difetto di fabbrica, secondo chi la vita del partito l’ha conosciuta (abbastanza) e apprezzata (poco) dall’interno. “Il Caffè Mauro si vende in tutto il mondo – ci spiega un rappresentante leghista, che ovviamente ci tiene all’anonimato -. Se arrivando in Sicilia il caffè Mauro non si vende, i problemi sono due: o hanno mandato una partita avariata, o è un rappresentante che non sa proporre il caffè Mauro”. Chiaro, no?

Il 2 febbraio Salvini arrivava a Palermo per battezzare il primo gruppo della storia a Palazzo dei Normanni. Era il giorno delle contestazioni a Ballarò e della pace con Micciché dopo le parolone sui migranti. Ma da quel momento il Carroccio ha perso tutto l’entusiasmo. Il tentativo di far rigare dritto Musumeci, dopo qualche screzio fra capigruppo, si è affievolito giorno dopo giorno. Tant’è che la Caronia, oggi, parla di “totale vuoto di idee costruttive” e di una politica che “sembra basata unicamente su una sterile retorica senza alcuna proposta che possa essere di sostegno e stimolo all’azione del governo”. In effetti, dopo aver minacciato ‘niente marchette’ alla vigilia della sessione di Bilancio, dei deputati leghisti si sono persi le tracce. Inghiottiti anch’essi dalle manovre di palazzo.

La prima ha portato al mini-rimpasto. Dopo settimane di tensione, in cui sembrava che l’unica prerogativa del Carroccio fosse l’assessorato all’Agricoltura, Musumeci ha deciso di rifilargli i Beni culturali senza toccare il resto. La riflessione di Candiani a quel punto non è stata facile: dopo aver rilegato Orazio Ragusa in panchina, aver sognato magistrati (Roberto Centaro) e bruciato un paio di nomi (Francilia e Cantarella), ha scelto di puntare sul giornalista Alberto Samonà, ottimo conoscitore della Sicilia e della storia, senza però dargli il tempo di ripulire Facebook e gli archivi personali da anni di “simpatie nere”. Esponendolo, di conseguenza, alla gogna del moralismo impazzito.

La seconda manovra, tuttora in corso, è quella che riguarda la federazione con Diventerà Bellissima. Ritenuta “non prioritaria”, e per certi versi improduttiva, fino a un anno fa – tanto da costringere Musumeci a ore di anticamera per parlare con il “Capitano” – per la Lega adesso è diventata “indifferibile”. L’invito di Salvini scade a settembre. Ma il movimento del governatore , l’unico davvero impattante a livello percentuale (anche se l’Mpa conserva un ottimo bacino elettorale fra Agrigento e il Catanese), non ha ancora sciolto le riserve e non è detto che lo faccia a breve. Il calo nei sondaggi dell’ex Ministro dell’Interno e la storia del suo partito – antitetica rispetto alla professione di fede sicilianista di Musumeci – ha instillato il dubbio in molti dirigenti e nella base, e non gioca a favore di Candiani. Che questa operazione non è sicuro di chiuderla nemmeno in autunno.

La grande zitella di Sicilia, inoltre, deve fare i conti con la puzza sotto il naso degli alleati. Molti, alle prossime Amministrative, vorrebbero che il simbolo della Lega sparisse a beneficio dell’intero centrodestra e, soprattutto, delle esperienze civiche. Ma il Carroccio non può e non vuole nascondersi. Il muro contro muro ha portato a delle crepe: l’ultima a Milazzo, dove il partito di Salvini, dopo aver rinunciato al proprio candidato ed essere inviso a quello della coalizione, potrebbe correre insieme all’Mpa contro gli alleati di sempre. Per non parlare di Agrigento o Marsala, dove la situazione è al punto di rottura. Nonostante i vertici regionali avessero deliberato che bisogna andare uniti ovunque. E’ da qui – dall’incapacità di certi politici locali a tener fede alle decisioni prese a Palermo – che Candiani ha lanciato l’idea di abolire le preferenze. Una proposta che gli è tornata indietro come un boomerang. Che gli ha restituito un partito terremotato e alla ricerca spasmodica di soldati fedeli.