Giudici radiati, soldi che spariscono, testamenti fasulli, consulenti pagati un tot al mese senza alcuna giustificazione, compensi pesantissimi.

Che la giustizia fosse davvero giusta è stata un’illusione. Per svegliarci ci siamo dovuti andare a sbattere contro.

Che ingenui a credere che le stanze dei magistrati e le aule dei tribunali fossero immuni dalle ruberie. Come se una toga, un tesserino professionale o una patente antimafiosa bastassero a fare da garanzia. Ed invece sono stati un sorta di separè per nascondersi dagli occhi indiscreti.

L’ultimo caso è quello dei professore universitario Luca Nivarra, dell’avvocato Fabrizio Morabito e di Walter Virga, pure lui avvocato ma soprattutto amministratore giudiziario tanto caro a Silvana Saguto, ex presidente delle misure di prevenzione.

La Procura vuole processarli. I primi due per la storia di un ammanco da migliaia di euro nell’eredità di un possidente affidatagli dal tribunale, e il terzo, Virga, per avere concesso a Nivarra consulenze, sostanzialmente inutili e ben pagate, nell’amministrazione giudiziaria del patrimonio Rappa. Si erano conosciuti all’Università e gli è parso normale lavorare insieme anche lontano dalle aule. E che dire del caso Niceta: dopo cinque anni agli imprenditori è stato restituito il patrimonio. Ci sono gli immobili perché fisicamente era impossibile disfarsene, ma dei negozi di abbigliamento restano soltanto le saracinesche abbassate. Ed è comprensibile che tra le macerie si notino ancor di più i soldi spesi per gestire aziende andate in malora, senza per forza volere additare un un colpevole della mala gestio.

Per anni è stata la fiducia l’unico faro della giustizia. Mi piaci, ti nomino amministratore. Mi piaci, ti nomino consulente. Mi piaci, ti nomino perito d’ufficio. Fin troppo semplice per non prestare il fianco alle storture. Le amministrazioni giudiziarie sono diventate l’ufficio di collocamento per i parenti degli amministratori. Come nel caso di un altro prof, Carmelo Provenzano, della Kore di Enna, che faceva lavorare persino la moglie.

Chi controllava il controllore? Nessuno. Il “prevenire è meglio che curare” non vale per la giustizia. Figuriamoci se controllore e controllato sono la stessa persona. Il notaio Antonino Pusateri, originario di Termini Imerese, ma operativo ad Agrigento, ad esempio, non registrava gli atti e si metteva in tasca i soldi dei clienti. Sono state le indagini delle forze dell’ordine e quei cattivoni dell’Agenzia delle Entrate a fare saltare il banco. E, a proposito di omonimie, qualcuno vada a vedere che fine ha fatto un’altra eredità divorata da un famelico amministratore che, con un cinismo da paura, l’unica erede disabile nella miseria più nera. Vergogne avallate dal tribunale civile e che il tribunale penale fa finta di non vedere.

Forse perché il sistema non ha mostrato di possedere gli anticorpi necessari. I pochi e rari episodi fin qui smascherati sono quelli sfociati giocoforza negli illeciti penali, mentre chissà quante storture sono nascoste sotto la polvere dei fascicoli delle sezioni civili e fallimentari dei Tribunali, dove gli incarchi e le consulenze incrociate – oggi a me, domani a te – sono diventate l’indotto dorato della giustizia che ha perso credibilità. Si annida il sospetto che la cura sia peggiore della malattia. Ecco perché è naturale non restare indifferenti quando si scopre che due commissari prefettizi incaricati di gestire la discarica Oikos nel Catanese guadagnavano 45 mila euro al mese lordi. Stipendi ridotti della metà per l’intervento del Tar.