“All’armi, son fascisti”. Giorgia Meloni batte tutti per destrezza. E da Capalbio a Marzamemi, passando per le masserie del Salento, s’alza un grido: “All’armi, son fascisti”. Né accenna ad acquetarsi. Anzi, trova sponde pure all’estero. Oltralpe.

Non solo intellò. Pure la ministra degli Affari europei nel governo di Francia si angustia per il futuro dell’Italia meloniana. Annuncia di voler vigilare sul “rispetto dei valori e delle regole dello Stato di diritto”. Nientemeno.

Il tema è quello: il presunto mussolinismo di Meloni. Il paventato ritorno in Italia del fascismo, che tanti guai combinò illo tempore e che ebbe inizio con la Marcia su Roma, giusto cent’anni fa. “Il caso e le coincidenze” avrebbe notato Leonardo Sciascia. Il quale nella querelle viene tirato in ballo proprio per aver sempre denunciato “l’eternamente possibile fascismo italiano”.

Sempre in Francia “Actes relatifs à la mort de Raymond Roussel” – nuova traduzione a firma di Jean-Pierre Pisetta del racconto-inchiesta di Leonardo Sciascia del 1971, appena pubblicata dalle Edizioni Allia – diventa occasione di pensieroso dibattito sull’Italia postfascista. Con Le Monde in prima fila nel recensire il libro. Per rievocare la strana morte “de l’écrivain et poéte” Roussel avvenuta a Palermo in un albergo di glorie e misteri, il Grand Hotel et des Palmes, il 14 luglio del 1933, anno XI dell’era fascista.

Morte naturale, forse cercata, “probabilmente causata da intossicazione da narcotici e sonniferi rinvenuti in grande quantità nella stanza”. Niente autopsia, sottolinea Sciascia nell’osservare la frettolosa chiusura delle indagini e lo scarso rilievo attribuito alla notizia della morte di uno scrittore famoso, ricco e controverso. Perché “senza dubbio concorse la regola fascista, cui polizia e magistratura alacremente sottostavano, di mettere sotto silenzio tutti quei casi in cui il taedium vitae assurgesse a tragici esiti”. Come se il suicidio potesse dare l’impressione “dell’impossibilità di vivere sotto la tirannide” perfino per uno straniero. A maggior ragione quando Mussolini da Piazza Venezia aveva appena annunciato il Patto a quattro con Francia, Germania e Regno Unito.

“Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”, nudi e crudi nella sequenza di Sciascia, sono un manifesto sull’opportunismo di chi avrebbe dovuto indagare e scelse di adagiarsi su una narrazione che non disturbasse il regime.

“Credo che se sono diventato un certo tipo di scrittore, lo devo alla passione antifascista”, dichiarava Sciascia a Marcelle Padovani nell’intervista confluita in un libro del 1979: “La Sicilia come metafora”. Romanzo-denuncia che è cronaca sul potere, sul cinismo e la crudeltà di qualsiasi potere. Filo conduttore intorno al quale si dipana l’intera opera di Sciascia. L’archetipo.

“Sono nato a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1921 – un anno prima della Marcia su Roma”, esordisce Sciascia nella conversazione con Padovani. “Non ho subito respirato il fascismo: prima che cominciassi ad andare a scuola, una cameriera di mia zia, ogni volta che sul giornale vedeva un ritratto di Mussolini (e cioè ogni giorno) mi insegnava che non Mussolini quell’uomo veramente si chiamava ma musso-di-porco (italianizzava il siciliano mussu, cioè muso)”.

Oggi un’affermazione così irriverente sul mussu di Mussolini magari diventerebbe un meme sul web. Come il tormentone su Giorgia Meloni a ritmo rap. O il cartoon di Peppa Pig che, in polemica con Meloni, è pronta ad abbandonare l’Italia assieme alle sue due mamme, genitore 1 e genitore 2. Ma anche la ruspa di Salvini, in vendita causa inutilizzo. O la parodia intorno allo “sbarco” sul canale Tik Tok di un Berlusconi comunque all’avanguardia rispetto all’età.

In prima linea sulle bacheche virtuali c’è anche la Dirty dancing di Gigino Di Maio che, spiccando il volo come l’Ape Maio, si è bruciato le ali. Anzi. E’ stato abolito con un tratto di penna. Proprio come la povertà. A proposito dove è finito il ministro degli Esteri del governo dei migliori e anche di quello precedente? Proprio ora, con la guerra nucleare che bussa alle porte?

E ci sono “gli occhi di tigre” sfoderati da Enrico Letta, il primo a improntare questa campagna elettorale sulla demonizzazione dell’avversario rievocando, addirittura, le elezioni del 1948. Quando il nemico, ironia della sorte per un segretario del Pd, era il Fronte democratico popolare. Non parliamo delle scelte di Enrico, aut-aut fatti apposta per generare parodie sulle varianti rosso progressista/nero oscurantista.

Ecco. “Le rouge et le noir sarebbe piaciuto a Sciascia. Almeno per il richiamo a Stendhal. “L’adorabile” Stendhal, come lo definì ne “L’affaire Moro”, unico scrittore a meritare questo aggettivo. Stendhal, attraverso un fatto di cronaca avvenuto intorno al 1830 aveva rappresentato nel romanzo “Il rosso e il nero” la Francia dell’epoca, tanto simile a quella dei giorni nostri. Quindi per contiguità anche all’Italia.

Ma è un mondo sgangherato quello dei social, in cui tutti possono scrivere presumendo di avere qualcosa da dire. Un mondo in cui uno vale uno. Per certi versi epigono di quella televisione che introdusse l’audience come valore a scapito delle competenze. E’ la piazza virtuale degli influencer, categoria onnicomprensiva di cantanti, giornalisti, perfino scrittori (del tipo chiagne e fotti). Che poi in questa vicenda politica hanno dimostrato di influenzare ben poco. Capita che contandosi uno valga zero.

Figuriamoci cosa gliene sarebbe importato di questa canea a Sciascia, già alieno per generazione, natura e cultura alla società dello spettacolo. Uno che già quarant’anni fa sosteneva che “il potere è la televisione, il potere è la casa di moda” senza neppure immaginare Ferragnez.

Figuriamoci ora che il teatro si va svuotando e il re resta nudo e solo, senza astanti. Ché non possono più neppure pagarsi il biglietto. Si salvi chi può. Altro che: “all’armi, son fascisti”.

Tirato per la giacchetta durante la campagna elettorale più trash e divisiva di sempre e soprattutto dopo l’esito del voto di settembre, Sciascia ha risposto a modo suo. Con i suoi scritti. Con un invito alla ragione e al pensiero critico rispetto agli accadimenti: “Il fascismo non è morto. Quando tra gli imbecilli e i furbi si stabilisce una alleanza, state bene attenti che il fascismo è alle porte”. E con una dedica ai professionisti dell’antifascismo: “Il più bell’esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è”.

Nel gioco degli specchi entrambe le affermazioni rimandano alla lezione sul potere di Sciascia. La “voglia di combattere, di mantenere un atteggiamento sempre polemico nei riguardi di qualsiasi potere”. Con una gran fede nella scrittura. In quel “colpo di penna come un colpo di spada” che può bastare “a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso”. Obiettivo dichiarato già nel primo libro di successo: “Le parrocchie di Regalpetra” del 1956.

Fu sempre per Sciascia “un atto di fondamentale ottimismo quello di scrivere, dando ragguaglio di una realtà così terribile, in un certo senso denunciandola”. Nella quarta di copertina di “Nero su Nero” del 1979 specificò che il titolo era una “parodistica risposta all’accusa di pessimismo” che gli si rivolgeva: “la nera scrittura sulla nera pagina della realtà”.

Sciascia è stato il primo autore a scrivere di mafia nella storia della letteratura italiana. Il primo ad “aver dato rappresentazione non apologetica del fenomeno mafioso, ma sempre con la preoccupazione che si finisse col combatterla con gli stessi metodi con cui il fascismo l’aveva combattuta (una mafia contro l’altra)”.

Il fascismo per lui era memoria d’infanzia. Del padre che imprecava se si doveva mettere la camicia nera. Del suo non volere indossare, a corredo dell’abito da balilla, il fez sulla testa. Per sostituirlo con un cappello a tese larghe, “il primo atto anticonformista della mia vita”.

Quando poi, nel 1936, scoppiò la Guerra di Spagna, “la mia avversione al fascismo divenne netta, assoluta. Non sul piano ideologico, poiché non sono mai riuscito ad accettare integralmente una ideologia. Ma sul piano sentimentale, morale, intellettuale”.

Era appena un ragazzo, Leonardo Sciascia. Ma vedeva i suoi compaesani, i solfatari di Racalmuto che si arruolavano per sfuggire al pericolo mortale e sempre incombente del grisù nelle miniere, “L’antimonio” del racconto del 1958. Narrazione autobiografica, “vissuta dalla parte di coloro che andavano volontari in Spagna per evadere dalla disoccupazione, dal bisogno”.

Il dramma di andare a fare la guerra per trovare lavoro.  Ne “L’antimonio” Sciascia scrisse che dalla Guerra di Spagna gli parve “di aver avuto davvero un battesimo: un segno di liberazione nel cuore; di conoscenza; di giustizia. Quando un uomo ha capito di essere immagine di dignità, potete anche straziarlo. Sarà sempre la cosa più grande di Dio”. Da quella esperienza cominciò a “dolergli” l’Italia. Allo stesso modo in cui a Unamuno “le dolía España”.

Senza schemi, senza padroni, Sciascia quando scriveva graffiava, lasciava il segno. Nel mentre che riceveva con garbo borghese nella casa dal salottino liberty. Alle pareti le incisioni e le stampe che collezionava quanto i libri.

Ne aveva per tutti. Per i “cretini di sinistra” di cui annotò la nascita in Italia “intorno al 1963”. Un cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania”.

I professionisti dell’antifascismo in salsa social? Mah. Lo scrittore interpreta lo spirito del tempo. Che è caos. E che si incista nella caduta verticale della democrazia rappresentativa in Italia negli ultimi trent’anni.

Crisi annunciata da Sciascia. Anche se non ebbe il tempo di viverla. Una volta durante un’intervista gli chiesero cosa pensava dell’Italia nell’Unione europea. E lui, alla maniera di Manzoni, altro autore amatissimo: “Come un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro”.

Ma se avesse visto tutto questo, se avesse visto l’Italia di oggi sull’orlo di una crisi di nervi, prima ancora del collasso economico e sociale, cosa avrebbe detto Sciascia? Come avrebbe reagito?

“Mio nonno affermava che in Italia il potere è sempre altrove e che qui l’unica dittatura possibile è quella dei prestanome”, dice Fabrizio Catalano, regista, autore teatrale, attore, sceneggiatore, scrittore, traduttore. Il maggiore dei nipoti di Sciascia, quello che gli fu più vicino. Testimone diretto di casi minimi, di aneddoti familiari che messi assieme formano un caleidoscopio inedito su Sciascia. Compreso un lapidario e sicilianissimo: “Mah”, con cui commentò nel 1989 le immagini in tv della caduta del muro di Berlino, pochi giorni prima di morire.

“L’Italia è una nazione nata male. Un paese vigliacco. Dall’unità a Mussolini, alla guerra, alla fuga dei re Savoia, al caso del bandito Giuliano, all’assassinio di Moro. Un paese colonia. Da sempre”, argomenta Catalano. E cita Sciascia. Che era stato testimone oculare della Liberazione, cioè lo sbarco degli Alleati in Sicilia nel luglio del 1943. Testimone rigoroso: “La prima cosa che fecero gli americani sbarcati in Sicilia fu nominare uomini di mafia nei comuni più grossi del palermitano, dell’agrigentino, del trapanese”.

 “Ecco, mio nonno per vedere da vicino come andavano le cose aveva accettato di farsi eleggere nel 1975 al Consiglio comunale di Palermo da indipendente coi comunisti. Poi, nel ‘79 al Parlamento coi radicali. Quanto basta, sottolineava, per rendersi conto che il potere è altrove”, ricorda Catalano.

Il recente libro “Il tenace concetto. Leonardo Sciascia, la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile”, Rogas edizioni, di cui Fabrizio Catalano è coautore assieme ai sociologi Alfonso Amendola e Ercole Giap Parini è stato concepito come omaggio per il centenario della nascita dello scrittore, l’8 gennaio 1921.

Le celebrazioni non sono ancora concluse, l’ultima a New York giorni fa. Hanno dato nuova linfa con edizioni rinnovate e nuove traduzioni in lingue remote al maestro di Regalpetra. Ma al contempo, proprio per il gran numero di manifestazioni e convegni, spesso organizzati con l’ansia dell’esserci e del farsi notare, hanno offerto un’immagine “addomesticata” di Sciascia. Hanno inevitabilmente banalizzato l’eresia che gli era compagna.

“Eresia che talvolta aveva una componente eversiva”, sorride Fabrizio Catalano pensando agli “universi minimi” che per Sciascia compongono “la storia grande”. “Era d’accordo con Brecht”, dice. “E’ più ladro chi fonda una banca che chi la sfonda”.

“Il cavaliere e la morte” è quasi un testamento letterario di Sciascia scritto nell’estate del 1988 in Friuli dove era in vacanza proprio col nipote Fabrizio. In questa “sotie” il Diavolo è diventato superfluo. “Talmente stanco da lasciare tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui”, scrive Sciascia.

Tra il protagonista, un vecchio funzionario di polizia, e un agente dei servizi segreti c’è un celeberrimo scambio di battute. Il primo dice: “Si può sospettare che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini”. E l’altro ribatte: “Di tutti i cittadini in effetti: anche di quelli che, spargendo insicurezza, si credono sicuri”.

“Il mondo oggi è totalmente antisciasciano. Popolato da ignoti commissari che agitano feticci e seminano terrore. Con sorprendente, spropositato successo”, sottolinea Catalano. E aggiunge: “In una società priva di coscienze critiche, priva di anticorpi intellettuali, anche se il termine intellettuale non sarebbe piaciuto a mio nonno, Sciascia avrebbe perso il diritto di parola”.

Nel romanzo-testamento Sciascia descrive un mondo che si muove in modo insensato su parametri dissennati in uso tra i potenti. “Appunto – conclude Fabrizio Catalano –  Nulla più distante da mio nonno di questa attualità che si basa sull’assurdo concetto di profitto illimitato da parte di pochi e considera chi è normale come un idiota e chi è speciale come il chierichetto che ha accesso all’altare. Col paradosso che nessuno sa chi c’è dentro il tabernacolo. Sovrastrutture a incastro come scatole cinesi? Poteri forti? Chissà. Se ne parli, vieni tacciato di complottismo”.

Ma tutte le opere di Sciascia testimoniano che la realtà è un enorme complotto. Talvolta senza cervello. Senza strategia.

Ne “Il cavaliere e la morte” l’informazione è manipolata. Necessita di pubblici capri espiatori. C’è un personaggio chiave, il Grande Giornalista. Così descritto: “Dai suoi articoli, cui settimanalmente i moralisti di nessuna morale si abbeveravano, gli era venuta fama di duro, di implacabile; fama che molto serviva ad alzarne il prezzo, per chi si trovava nella necessità di comprare disattenzioni e silenzi”.

Alzare il prezzo, appunto. Un giudizio severo sui media. Per di più espresso da uno scrittore conteso dai quotidiani italiani.

Sciascia era reduce dalle polemiche scatenate dall’editoriale pubblicato sul Corriere della Sera nel gennaio 1987. Già il titolo: “I professionisti dell’antimafia” era politicamente scorretto. In linea con Sciascia, anche se non lo aveva fatto lui.

L’articolo, “sollecitato dalla lettura del libro di Christopher Duggan su mafia e fascismo”, scoppiò come una bomba nella trincea armata di ipocrisie e unanimismi, eterno rifugio della società civile e politica italiana per sfuggire alle contraddizioni della realtà. In un baleno Sciascia – da primo scrittore, per di più siciliano, a parlare di mafia in libri come “Il giorno della civetta” o “A ciascuno il suo” – finì alla gogna come “un quaquaraquà” qualunque. Lo attaccarono tutti. Giornali, politici, qualche magistrato, quella società civile sempre in trincea nelle lotte di bandiera. Pochi lo difesero. Spesso lasciando trapelare una punta di imbarazzo, magari sull’eccesso di garantismo.

Sciascia replicò secco più volte: “A me non interessa chi strumentalizza le mie opinioni, è dovere di tutti impedire che queste strumentalizzazioni abbiano effetto. In nome dell’antimafia si esercita una specie di terrorismo nei confronti di chi dissente. Lo Stato deve avere la faccia del diritto”.

Ma lo stesso Sciascia si era accorto da tempo che lo Stato la faccia del diritto l’aveva persa. In un’intervista televisiva del 1978 lo scrittore diceva che “lo Stato è la Costituzione”.  E che lui considerava estinta la Costituzione della Repubblica italiana. “Dissolta in una fase pre-Montesquieu”. Con i tre poteri che avrebbero dovuto restare indipendenti, riunificati nella partitocrazia.

Figuriamoci ora che la politica italiana si dibatte tra tecnocrazia e populismo. Col voto popolare che archivia la “migliore” tecnocrazia. Ma forse anche no.

In un discorso alla Camera nel 1979 Sciascia aveva teorizzato “l’ingovernabilità di chi governa”. Perché tutto ciò che è ingovernabile in Italia risiede, appunto, nel modo di governarla.

Tanto, “Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace”.