C’è una frase di Ignazio La Russa che suona (quasi) come un segnale di resa: “Si riuniscano anche solo i dirigenti regionali e trovino un accordo tra loro, ma che includa anche la scelta sul governatore”, ha detto il numero due di Fratelli d’Italia a Repubblica. La Russa, per inciso, è il colonnello scelto da Giorgia Meloni per cercare di risolvere l’eterna faida del centrodestra siciliano, che a due mesi dalle elezioni Amministrative di Palermo non è riuscita a sbrogliare un solo nodo. Quello dei colonnelli, in una coalizione così litigiosa, è un ruolo ingrato. Impossibile. Oltre a La Russa ce ne sarebbe un altro – al secolo Licia Ronzulli, senatrice della Repubblica – che Berlusconi aveva mandato nell’Isola per risolvere le grane interne a Forza Italia. Dopo aver fallito nella missione, s’è ridotta a ‘badante’ di Micciché, per evitare che il commissario azzurro esprima un verdetto troppo ‘di parte’ sulle prossime scadenze elettorali.

Ronzulli e La Russa sono accomunati dallo stesso destino: fallire in ogni tentativo di mediazione. FdI si era affidata a un altro paio di esponenti romani – il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida, e il responsabile organizzativo, Giovanni Donzelli – per far valere il peso del primo partito nei sondaggi. Ma gli ex missini, a distanza di settimane dall’offensiva (cioè la proposta di candidare Carolina Varchi) non sono riusciti a fare un solo passo avanti nei confronti degli (ex) alleati. Anzi, li hanno indisposti a tal punto da essere esclusi dal tavolo romano delle trattative convocato da un Salvini sempre più adirato per questi “giochi di palazzo” e deciso a scaricare ogni singola decisione sui dirigenti locali (a partire da Nino Minardo, cui ha dato “pieno mandato”). Un segno di stanchezza che i leader non fanno nulla per nascondere. Un male oscuro da cui la Sicilia stenta a liberarsi.

Il centrodestra dovrebbe ritrovarsi martedì: non è ancora chiaro se a Roma o a Palermo. Se con Fratelli d’Italia o senza. L’ennesima riunione potrebbe servire a poco, se al loro interno i partiti resteranno dilaniati. L’emblema è Forza Italia. Micciché non riesce a prendere una decisione senza finire nel mirino dei suoi detrattori, che di recente hanno assunto una ‘spia russa’ ben collaudata per far saltare il banco: Marcello Dell’Utri. “Parla a titolo personale”, ha detto Matteo Salvini. Ma Dell’Utri, che resta fraterno amico di Silvio Berlusconi e ha tutta l’intenzione di donare alla Sicilia la sua collezione di libri (da esporre, magari, nella Valle dei Templi), resta uno sponsor privilegiato di Musumeci e, un po’ a sorpresa di Roberto Lagalla, pur avendo il suo partito – Forza Italia – ribadito l’intenzione di puntare su Ciccio Cascio. Fra gli azzurri, poi, si annidano seminatori di zizzania: a partire da Gaetano Armao, che nel corso dell’ultima manifestazione azzurra nella Capitale, ha annunciato la volontà di candidarsi al Consiglio comunale di Palermo per risanare i conti. Dopo aver disintegrato quelli della Regione, costretta a cinque esercizi provvisorio consecutivi, l’ultimo dei quali scadrà il 30 aprile prossimo (a proposito, ma il Bilancio?).

Anche Fratelli d’Italia fatica a darsi una direzione. Quella di Raffaele Stancanelli, sostenuta dalla stragrande maggioranza del partito siciliano, è diffidente (per usare un eufemismo) sull’abbraccio “mortale” con Nello Musumeci. Ed è stata, tuttavia, ignorata dalla decisione della Meloni di puntare sul governatore uscente. Un modo per ‘sfidare’ la leadership di Salvini e per legittimare la crescita di Manlio Messina, altro caporale senza arte né parte (né voti) che aspira – dichiaratamente – a salire sull’ottovolante di Montecitorio. A pagare pegno più di tutti potrebbe essere Carolina Varchi, un avvocato in carriera, con estimatori a tutte le latitudini (politiche), che potrebbe passare in pochi giorni da piacevole scoperta ad agnello sacrificale sull’altare di accordi politici che costringeranno FdI a cedere qualcosa in cambio. E per amor (?) di coalizione, finirà per cedere il Comune di Palermo.

E’ una partita a scacchi che riguarda anche la Lega. Salvini, fin qui, è stato l’unico a non spedire colonnelli nell’Isola. Si è affidato al suo pupillo Nino Minardo, che gli ha servito su un piatto d’argento ‘Prima l’Italia’, un contenitore per superare le diffidenze centriste e moderate. Il deputato modicano, cercando di indirizzare la coalizione verso un’unità ad oggi impensabile, deve stare molto attento a schivare i colpi della fronda catanese del partito: non è un mistero, ad esempio, che l’on. Luca Sammartino, mr. Preferenze all’Ars, guardi con interesse alla candidatura a sindaco di Roberto Lagalla. Salvini è talmente stanco delle diatribe siciliane che, nell’ultima apparizione fuori dall’Aula Bunker, ha eluso ogni tipo di ragionamento: “Il candidato sindaco lo decideranno i palermitani”.

Ma oltre a Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia bisognerà mettere d’accordo altri sergenti e caporali. Quelli dell’Udc, eterodiretti dal leader maximo Lorenzo Cesa, vorrebbero trovare punto di caduta – che però non esiste – tra Lagalla (disposto ad andare avanti anche da solo) e la salvaguardia dell’unità del centrodestra (impossibile da costruire attorno all’ex rettore). Poi ci sono Saverio Romano e Totò Cuffaro, gli unici ad avere mani libere, in quanto leader di riferimento dei rispettivi schieramenti: il Cantiere Popolare e la Democrazia Cristiana. E poi c’è il fine stratega degli Autonomisti, Raffaele Lombardo. Anch’egli, quando è utile, si serve delle prestazioni di Roberto Di Mauro. Ma ora che il processo è finito e lui è pienamente riabilitato, tutti dovranno tenerne conto. Lombardo, che mal sopporta l’ipotesi di ritrovarsi Musumeci a palazzo d’Orleans, è il pezzo di mercato più ambito: federato con la Lega, nutre numerose simpatie anche a sinistra. Oltre all’ipotesi di sostenere la dem Caterina Chinnici come potenziale candidata del ‘campo largo’, l’ex governatore è corteggiato persino da Giancarlo Cancelleri, leader isolano (e sempre più isolato) del Movimento 5 Stelle.

Con un campo così eterogeneo, e partecipanti così ondivaghi, per Meloni, Salvini e Berlusconi diventa difficile qualsiasi tentativo di mediazione. Se non fosse che “chi vince in Sicilia, vince alle Politiche”, avrebbero già mollato la presa. Invece, accampati nelle loro segreterie romane, sono ‘costretti’ a seguire la partita da vicino. Intervenire, ove necessario; delegare, nella maggior parte dei casi. Sarà anche per queste liti, e per la manifesta incapacità a ricomporre i cocci, che la Sicilia è diventata l’ultima provincia dell’Impero. Con un male oscuro che l’attanaglia. E poi tutti a lamentarsi. Ma questa è un’ovvietà, la cifra distintiva di noi siciliani e dei governi che ci rappresentano.

Galeotto fu il vino

Nello Musumeci e Giorgia Meloni si sono incontrati ieri al Vinitaly di Verona, dove – in un breve colloquio intercettato dai giornalisti – si sarebbero detti fiduciosi sul fatto che nei prossimi giorni si risolverà la contesa sulla scelta del candidato a sindaco di Palermo e alla presidenza della Regione. Musumeci avrebbe offerto la disponibilità alla leader di Fratelli d’Italia, l’unica ad essersi espressa per il bis, di andare a Roma “così parliamo dieci minuti”. Ma le prossime 48 ore sono considerate decisive da entrambi. Oggi, tuttavia, dovrebbe saltare il vertice del centrodestra.