La Regione fa, la Regione disfa. Ricordate i 200 milioni frutto dell’accordo del 16 dicembre fra Schifani e Giorgetti (inizialmente dovevano essere 600), che sarebbero valsi a titolo di compensazione per l’aumento delle quote di compartecipazione alla spesa sanitaria? In attesa che la legge di bilancio dello Stato venga approvata dal Senato, l’assessore Falcone ha deciso di non usufruirne. Non subito. E così, le variazioni di bilancio predisposte dalla giunta e approvate dall’Assemblea regionale, sono state decapitate dal governo medesimo, con la cancellazione dell’articolo 1, che prevedeva l’iscrizione a bilancio di questi 200 milioni. Se ne parlerà nella prossima Finanziaria.

Non è bastato che il governo smentisse se stesso, però, per ammansire le opposizioni. Che martedì in aula hanno parlato di “manovra al ribasso”, evidenziando ancora una volta la decisione di Schifani di rinunciare “nel rispetto del principio della leale collaborazione richiamato dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 62/2020, a rivendicare le compensazioni finanziarie per gli anni dal 2007 e 2021”. Circa 9 miliardi di euro, per i calcoli più audaci. Anche se dai banchi del governo e della maggioranza ci hanno tenuto a precisare che quei soldi la Sicilia non li avrebbe visti comunque. E esplicitare il concetto era stato nei giorni scorsi Luca Sammartino, vicepresidente in carica: “Il credito non è mai stato realmente riconosciuto da nessuno – diceva l’esponente leghista -. Ci sono due sentenze della Corte Costituzionale che vanno esattamente nella direzione opposta. La prima è la 246 del 2012, quando la Regione impugnò il bilancio dello Stato proprio in merito a queste risorse e la Consulta considerò la richiesta inammissibile. La seconda è la 62 del 2020 con la quale è stato accolto il ricorso dello Stato contro la legge regionale 8 del 2018 che metteva in bilancio somme riferibili a questo presunto credito. Proprio da quest’ultima decisione è arrivato l’invito della Corte a trovare un accordo tra i due governi”.

L’accordo è quello di Schifani e Giorgetti. Oltre ai duecento milioni, lo Stato si impegna “ad individuare una soluzione al fine di concorrere progressivamente, dall’anno 2023, all’onere derivante dall’innalzamento della quota di compartecipazione regionale alla spesa sanitaria dal 42,50% al 49,11%”. Ma anche questo impegno, scritto sulla sabbia, lascia quel senso di impotenza che è tipico della Sicilia. Rimasta incatenata nei suoi vizi storici, che hanno debilitato la spesa pubblica e provocato contorsionismi a catena. L’ultimo, per tutti, è quello che ha portato il governo regionale fra le braccia dello Stato dopo aver ‘sfidato’ la Corte dei Conti, che aveva sospeso il giudizio di parifica sul rendiconto 2020. L’assessore Falcone aveva dichiarato che la decisione dei magistrati non era “paralizzante”, ma nel frattempo intraprendeva un dialogo serrato con Roma affinché, attraverso una norma di legge, desse peso e forma alle sue parole. Per evitare che il destino della Regione fosse legato unicamente alla sentenza della Corte Costituzionale. L’attesa avrebbe impantanato tutto. E così, via libera al ‘Salva Sicilia’, l’emendamento che da un lato ha fatto esultare il centrodestra e, dall’altro, ha fatto litigare alcuni suoi esponenti per intestarsene le paternità.

Col passare dei giorni e delle ore, però, l’entusiasmo si è affievolito. Vero è che lo Stato autorizza la Regione siciliana a “ripianare in quote costanti, in dieci anni a decorrere dall’esercizio 2023, il disavanzo relativo all’esercizio 2018 e le relative quote di disavanzo non recuperate alla data del 31 dicembre 2022”. Ma nel frattempo pretende in cambio un impegno severo e duraturo, soprattutto sul piano della qualità della spesa. E rimanda al vecchio accordo Stato-Regione, firmato il 14 gennaio 2021 dall’ex governatore Musumeci e dall’ex premier Conte. Così recita testualmente l’articolo 492-quaterdecies: “La Regione siciliana rimane impegnata al rispetto delle previsioni di cui ai punti 1, 2 e 5 dell’accordo sottoscritto con lo Stato il 14 gennaio 2021, in attuazione dei princìpi dell’equilibrio e della sana gestione finanziaria del bilancio, della responsabilità nell’esercizio del mandato elettivo e della responsabilità intergenerazionale, ai sensi degli articoli 81 e 97 della Costituzione, garantendo il rispetto di specifici parametri di virtuosità, quali la riduzione strutturale della spesa corrente”.

Inoltre, “in caso di mancata attuazione degli obiettivi di riduzione strutturale complessivi previsti ai punti 1 e 2 dell’accordo, nonché in caso di mancata trasmissione della certificazione prevista dal medesimo accordo, viene meno il regime di ripiano pluriennale del disavanzo”. In sostanza si tornerebbe a una spalmatura triennale, anziché decennale. In attuazione dell’accordo, “le riduzioni strutturali degli impegni correnti sono realizzate attraverso provvedimenti amministrativi o normativi che determinano una riduzione permanente della spesa corrente. A decorrere dall’anno 2023, le riduzioni permanenti degli impegni di spesa corrente sono recepite nel bilancio di previsione mediante corrispondenti riduzioni pluriennali degli stanziamenti di bilancio e delle autorizzazioni di spesa”.

Ma cosa recitano i punti 1 e 2 del precedente Accordo, la cui violazione rischierebbe di far sprofondare la Sicilia nel baratro, vanificando gli effetti di una spalmatura di un disavanzo da circa 2 miliardi su base decennale? Il punto 1) è quello che delinea le riduzioni strutturali degli impegni di spesa (dal 20 al 40 per cento annuo). Il punto 2) stabilisce una serie di interventi che riguardano: la completa attuazione delle misure di razionalizzazioni previste nel piano delle partecipazioni societarie; il completamento e la definitiva chiusura delle procedure di liquidazione coatta delle società partecipate e degli enti in via di dismissione; la riorganizzazione e lo snellimento della struttura amministrativa della Regione, al fine di ottenere una riduzione significativa degli uffici di livello dirigenziale; il riordino degli uffici e organismi al fine di eliminare duplicazioni o sovrapposizioni di strutture o funzioni; il contenimento della spesa del personale in servizio; la riforma dei consorzi di bonifica e dei forestali; la riduzione di spesa per le locazioni passive della Regione; ma anche il recepimento dei principi in materia di dirigenza pubblica, con l’eliminazione delle distinzioni tra la prima e la seconda fascia dei dirigenti di ruolo, il superamento della terza fascia dirigenziale e l’istituzione di un’unica fascia dirigenziale. Un’agenda fittissima che non concede sconti. Pena un ritorno allo striscione di partenza.

C’è infine un ultimo punto del precedente Accordo da rispettare, ossia il 5), secondo cui “entro il 30 aprile di ciascun anno, la Regione trasmette una certificazione per la verifica dei punti 1 e 2 dell’Accordo ad un apposito tavolo Stato-Regione, istituito con decreto del Ministero dell’Economia e delle finanze”, composto da vari rappresentanti istituzionali. “La certificazione – si legge nell’Accordo del gennaio ’21 – è predisposta sulla base di dati di preconsuntivo ed è aggiornata e ritrasmessa a seguito dell’approvazione della legge regionale del rendiconto dell’esercizio di riferimento”. La Regione deve ancora approvare il rendiconto 2021. Riusciremo a rispettare le scadenze?

Giunta Schifani: via libera all’esercizio provvisorio

Via libera dalla giunta al disegno di legge che autorizza l’esercizio provvisorio fino al 31 gennaio del bilancio della Regione Siciliana per il 2023. Il ddl, adesso, sarà trasmesso all’Assemblea regionale siciliana per iniziare il relativo iter di approvazione. «Sarà la prima volta, dopo tanti anni, che la Regione avrà un bilancio entro il 31 gennaio», ha detto il governatore Renato Schifani.