Enrico Letta potrebbe essere la persona giusta per tentare di fare uscire il Partito democratico dalle difficoltà nelle quali si trova. Le capacità personali, l’esperienza, il prestigio, la serietà dell’ex presidente del Consiglio sono una buona base di partenza per imboccare una strada nuova e molto difficile da percorrere. La crisi che investe quella forza politica non può essere risolta da un nuovo segretario, per quanto di valore egli sia. Restano, solo per citare i titoli, i problemi di identità, di cultura, di linea politica, di identificazione dei ceti sociali di riferimento, di capacità di attrarre, dare spazio e voce al composito mondo della sinistra, del riformismo e dell’ambientalismo, a quel mondo che, finora, non ha trovato una casa comune. Insieme a tutto ciò c’è da mettere mano alla organizzazione nel territorio, una questione di non poco conto. Dalla presenza tra la gente, il Partito democratico deve ripartire se vuole essere un’alternativa vera alla destra.

La scelta di Letta è la premessa per una sfida che appare improba e che dovrà scontrarsi con le inerzie e le convenienze dei gruppi che, da anni, si sono insediati al Nazareno, si sono chiusi a riccio, si difendono con i meccanismi della legge elettorale, hanno una indubbia capacità manovriera con la quale spesso sono arrivati al potere malgrado i risultati elettorali negativi.

Se il segretario che verrà eletto domenica, smentendo una antica tradizione di indifferenza e di estraneità dei suoi predecessori, avesse voglia di guardare alla Sicilia, avrebbe un quadro desolante della condizione del partito. La realtà isolana forse è analoga a quella delle altre regioni, o è ancor più grave per le vicende che qui si sono succedute negli ultimi anni.

Il Partito democratico al governo Crocetta ha pagato un enorme costo politico e di credibilità, per nulla compensato dalla contropartita di notevoli posizioni di potere. La parabola renziana anche da noi diede l’illusione che si fosse consolidata una forza prorompente e quell’abbaglio attrasse parecchie, discutibili presenze, che temporaneamente, gonfiarono e in qualche caso sfigurarono il Pd. Dopo le elezioni vinte dalla destra e dopo l’appannamento repentino di Renzi, emersero tutte le contraddizioni. Un finto congresso celebrato in proprio da una sola corrente – quella che a lui faceva riferimento – portò alla segreteria regionale Faraone, che da lì transitò in Italia Viva con quattro degli undici deputati regionali eletti nel 2017. Una successiva, distratta, gestione commissariale si è conclusa con la nomina di Barbagallo a segretario che, complice la pandemia e lo stato del partito, è avvenuta quasi clandestinamente con l’accordo di pochi esponenti delle due correnti, quella di Franceschini e di Andrea Orlando, nel disinteresse e nell’indifferenza di quanti sono rimasti legati al Partito democratico. Tuttora dalla nuova segreteria non sono venute apprezzabili iniziative per il suo rilancio politico ed organizzativo. Quasi ovunque la realtà rimane piatta. A Palermo nuovi dirigenti stanno mettendo in atto utili attività con il limite di interloquire prevalentemente con gruppi del ceto medio, rimanendo, perciò, lontani dalle realtà periferiche della città e dal resto della provincia. Questi dirigenti devono affrontare la difficilissima transizione tra Luca Orlando e ciò che dopo di lui verrà al comune capoluogo, scontando le difficoltà di trovare candidati credibili e valide alleanze.

In altre province, il Partito democratico vive una condizione stentata. Quasi ovunque hanno cessato di esistere i circoli, luoghi essenziali di incontro dei militanti, sedi di collegamento con le comunità. La classe dirigente si è assottigliata, perdendo per strada parecchi esponenti. I sindaci e gli amministratori, spesso di buon livello, restano ai margini e quando danno l’impressione di poter essere competitivi per la conquista del seggio regionale, vengono colpiti dal fuoco amico che arma nei consigli comunali l’opposizione contro di loro. E, tuttavia, anche se volessero, quegli amministratori non trovano un rapporto con il partito, non hanno un collegamento in grado di dare forza e visibilità alle loro iniziative.

In provincia di Agrigento – realtà emblematica – si sta svolgendo il congresso per iniziativa di una delle due componenti, con l’assenza polemica dell’altra che non ne riconosce la validità. Le assemblee dei circoli si svolgono alla presenza di pochi iscritti, mobilitati da un deputato regionale in contrasto con un ex deputato, per il controllo di ciò che resta del partito. A questa contesa rimane estranea l’ex parlamentare nazionale Maria Iacono, protagonista tra le più valide della storia della sinistra agrigentina, che rifiuta di partecipare ad una banale contesa priva di valore politico, incrociando la volontà dei protagonisti della disfida, che preferiscono avere attorno tranquilli e silenziosi simpatizzanti. Ciò che succede non può mobilitare gli iscritti e gli elettori, non dice nulla all’opinione pubblica e conferma l’irrilevanza di una forza che, ancora pochi mesi fa, ha subito una ulteriore, sonora sconfitta nelle elezioni amministrative del capoluogo.

La realtà è pressoché analoga nelle altre province, in alcune delle quali rimane qualche apprezzabile presenza, ma in genere fotografa una situazione che inchioda il Partito democratico ad un ruolo quasi inconsistente e ad un consenso prevedibilmente inferiore a quel tredici per cento ottenuto alle regionali del 2017 e anche al dieci per cento delle politiche dell’anno successivo.

Non basta l’impegno generoso di pochi, che continuano a spendersi per un partito che, nel panorama siciliano e nazionale, stenta a mantenere il riferimento ai valori e alla cultura del riformismo e che rischia di non venire più percepito come una forza di sinistra per l’indeterminatezza della propria identità e per l’inerzia e l’inadeguatezza della propria classe dirigente. La condizione organizzativa è figlia della realtà politica, descrive un partito dentro il quale convivono esangui tribù prive di motivazioni, delinea una realtà non diversa da quella degli altri partiti, dove le tribù sono più numerose e alimentate dal potere.

Ma proprio perché privo del potere a livello regionale e con una presenza ridotta nei comuni, proprio perché è un partito di sinistra, non può vivere se non produce politica, se non alimenta aspettative, non incarna valori, non riesce a essere interprete e portavoce della profondissima crisi di tanta parte della nostra popolazione, della crescente marginalità della Sicilia all’interno di un Mezzogiorno da tempo scomparso dall’agenda nazionale e probabilmente divenuto ancor più residuale nella visione del nuovo governo dei tecnici. Il Partito democratico, per uscire dal letargo nel quale si trova, per essere visibile e competitivo, dovrebbe diventare del tutto altro da quello che è in Sicilia.

La situazione nella quale si trova lo rende inadeguato a competere con la destra sul terreno elettorale, a sparigliarla, a costruire alleanze ed anche a mettere a frutto il protagonismo che riesce ad avere in Assemblea, con soli sette deputati. Pur essendo minoranza esigua e con un’interlocuzione non sempre facile con i Cinque stelle, a Sala d’Ercole, il Pd spesso fa valere le proprie iniziative, afferma il proprio protagonismo, mette in luce le inadempienze del governo e della maggioranza che lo sostiene.

Tuttavia, dall’impegno parlamentare, ancora non viene fuori una proposta forte in grado di intestare al gruppo e al partito un’idea mobilitante e visibile. Non emerge una indicazione che tenti di sottrarre l’Autonomia ad una condizione stanca, ripetitiva, ridotta, alla pura e spesso inefficace gestione dell’esistente. Non affiora una idea in grado di rilanciare la visione mediterranea dell’Europa, all’interno della quale la Sicilia potrebbe ritrovare un ruolo essenziale. Non esiste una ipotesi per il lavoro, per le periferie delle città, per il centro dell’Isola avviato alla desertificazione, svuotato delle sue migliori energie. Su argomenti di questa natura, il Partito democratico dovrebbe divenire il centro motore di una ricerca, di uno sforzo che mette insieme le intelligenze della scuola, dell’università, delle organizzazioni intermedie, del volontariato.

Mi capita di dialogare con alcuni che hanno avuto ruoli di rilievo nel Pd siciliano e nella politica nazionale e che vivono con disagio ed amarezza le difficoltà che attanagliano l’uno e l’altra, senza rimpianti e nostalgie né tantomeno voglia di tornare a ricoprire posizioni di rappresentanza. In quelle conversazioni torna spesso una domanda: è proprio normale che non esista una sola occasione nel corso della quale anche a questi si chieda un’opinione, una proposta, un consiglio?

La mancanza di memoria, la cancellazione del passato è propria di chi non riesce ad immaginare un futuro e vive dentro uno stantio presente. La realtà che per sommi capi si è tentato di raffigurare e che non è dissimile da quella di altre regioni, è il prodotto di un grave deficit culturale e politico che può non essere rilevante per altre forze politiche, ma risulta esiziale per la sinistra.

Anche di questa realtà il nuovo segretario nazionale dovrà prendere consapevolezza, se vorrà tentare di salvare e di rilanciare il Partito democratico.