Alitalia è soltanto la punta dell’iceberg. La Sicilia per il sistema-Paese ha un valore prossimo allo zero, tanto che la compagnia di bandiera, foraggiata da soldi e investimenti pubblici (garantiti pure dai siciliani), può decidere impunemente, dalla sera alla mattina, di cancellare i voli su Trapani. Lasciando al buio una provincia che faticosamente stava provando a ricostruire il proprio tessuto connettivo, fatto per lo più di turismo. E non succede nulla. Perché la polemica innescata da Musumeci, che chiedeva un intervento forte e tempestivo da parte del premier Conte, non ha generato alcun effetto, eccetto un’interrogazione parlamentare (da parte del grillino Antonio Lombardo), una videoconferenza fra i sindaci e il Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano e il grido indignato dei siciliani, che sempre più spesso faticano a trovare sponde nei palazzi che contano.

Di fronte a un’arroganza così piccata da parte della politica romana, che si tradurrà nell’ennesimo atto di menefreghismo (o siete pronti a scommettere che Alitalia tornerà a Birgi con la coda fra le gambe?), ci sono due possibili atteggiamenti da coltivare: uno è il vittimismo, a cui la classe politica siciliana – per prima – ci ha abituato. L’altro, assai meno esplorato dalle parti di palazzo d’Orleans, è la sincera e genuina pretesa di far girare le cose in un altro modo. Il classico “pugno sul tavolo”, espressione ormai abusata, che garantirebbe all’Isola una degna rappresentanza nei tavoli che contano. Dove ci invitano, è chiaro, ma finiamo spesso in disparte. La classe dirigente è libera di scegliere quale dei due strumenti sia più opportuno adottare: la lagna o il rigore.

Che la Sicilia sia terra di nessuno, sempre più isolata (in senso letterale), lo dimostra la presa di posizione di Alitalia, che in cinque minuti ha cancellato tutti i voli da Trapani Birgi verso Roma e Milano per i mesi di luglio e agosto. Dal “Vincenzo Florio”, in piena estate, non sarà possibile raggiungere Fiumicino né Linate. Non ci hanno dato neppure la possibilità di testare la percentuale di riempimento dei voli al termine del lockdown – l’aeroporto riaprirà soltanto il 21 giugno – che Alitalia aveva già deciso di andarsene. Unilateralmente. Dicono di aver perso il 60% delle prenotazioni rispetto al 2019, e che per questo preferiscono tagliare i ponti. Cancelleri, il ministro delle Infrastrutture, ha provato a spiegare che si tratta di una soluzione applicata anche altrove, ma la compagnia di bandiera è fresca di “nazionalizzazione”: i 3 miliardi di euro versati dallo Stato per la sua ricapitalizzazione, attraverso il Decreto Rilancio, è l’ultimo tentativo disperato di salvare capra e cavoli e costituire una newco che permetta ad Alitalia di riprendere il volo. In realtà ci provano da una quindicina d’anni, senza grosso costrutto. La compagnia di bandiera copre il 15% del mercato domestico, percentuali di gran lunga inferiori rispetto a Ryanair e Easyjet. Ma è trattata coi fiocchi.

Ha avuto sempre un rapporto ruvido con la Sicilia. Da Trapani è appena andata via, mentre a Comiso ha messo il naso di rado, garantendo degli Embraer E175 da 88 posti per collegare il “Pio La Torre” con Linate (ma ne è passato di tempo). Potrebbe tornare di moda dal primo novembre, quando lo scalo ragusano dovrebbe attivare i voli per la continuità territoriale con Milano e Roma, e a quel punto Alitalia potrebbe partecipare al bando. Ma è sulla continuità territoriale e sulle tratte sociali (o a prezzi calmierati) che viene fuori tutta la debolezza della Sicilia. Gli aeroporti di Trapani e Comiso già da mesi aspettano la pubblicazione di un bando per assegnare alcune rotte a prezzi vantaggiosi per i residenti: tutto è stato rinviato, per l’ennesima volta, a causa del Coronavirus, ma ci sono in ballo una cinquantina di milioni (statali e regionali) per abbattere gli oneri aeroportuali e riscattare l’Isola di fronte a una “insularità” latente di cui i politici si riempiono la bocca.

L’assessore regionale all’Economia, Gaetano Armao, è anche il presidente del Gruppo Interregionale sull’insularità presso il Comitato Europeo delle Regioni (CoR). Ma dai suoi frequenti viaggi a Bruxelles ha strappato qualche promessa e poco altro. Piuttosto, la sensazione è quella della resa. In una recente intervista, Armao ha dichiarato che “il primo e il secondo comma dell’articolo 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, stabiliscono che l’UE mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle regioni attraverso il rafforzamento delle politiche di coesione, mentre il terzo comma invece sancisce che una particolare attenzione deve essere rivolta alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali, e tra questi le isole. Purtroppo, nonostante gli specifici interventi del Parlamento europeo che in merito ha adottato, può dirsi che la “condizione di insularità” rimanga ancora marginale nelle politiche di coesione e di impiego dei fondi SIE”. Sono i fondi strutturali e d’investimento. La netta sensazione è che stare a Bruxelles, frequentare i palazzoni della politica comunitaria e le migliori catene di alberghi, e intessere rapporti a ogni livello, non sia bastato a ottenere risultati.

In verità, la polemica sul caro voli esplode – puntualmente – ogni anno quando ci si avvicina alle feste di Natale. Le tariffe schizzano alle stelle e i politici si arrabattano per cercare soluzioni-tampone. Una l’ha fornita Musumeci, con gli autobus dell’Ast per i fuorisede (ma è talmente retrò che non ha bisogno di commenti). Le tariffe sociali proposte dal viceministro Giancarlo Cancelleri per alcune categorie (lavoratori e studenti fuori sede, disabili ecc.) dovevano partire in estate, ma per il momento sono rimaste sulla carta. E anche l’ipotesi di introdurre la continuità territoriale per Catania e Palermo, due aeroporti strategici che fanno milioni di passeggeri ogni anno, sembra una proposta campata in aria e poco realistica: servirebbe produrre i documenti, avere l’ok dell’Europa (il vero nodo) e predisporre i bandi.

Da solo, il richiamo ad abbassare i prezzi non basta e non basterà mai. Soprattutto se, come sta avvenendo in questi giorni, le politiche adottate dal governo Conte – che ha imposto alle compagnie low cost di applicare ai propri dipendenti “trattamenti retributivi non inferiori a quelli minimi stabiliti dal contratto collettivo nazionale”, pena la revoca delle concessioni – potrebbe portare lontane dalla Sicilia anche Ryanair, Easyjet, Volotea e compagnia cantante, con un danno incalcolabile per l’Isola. Il problema è il solito: c’è qualcuno dei nostri, a Roma, in grado di rappresentare queste istanze?

La Sicilia, Cenerentola dello Stivale, è indietro su tanti, tantissimi aspetti. Volendo rimanere alle Infrastrutture, c’è il dilemma delle strade. Qualche giorno fa, con una presa di posizione forte, il presidente della Regione ha fatto causa all’Anac per le numerose inadempienze sul tessuto viario regionale. Ma sulla A19, che non ha un solo viadotto funzionante, il ponte Himera è crollato cinque anni fa e nemmeno l’intervento di assessori, ministri e viceministri ha prodotto l’effetto sperato: la prossima scadenza è agosto. I collegamenti fra Palermo e Agrigento sono al minimo storico, la Ragusa-Catania è un sogno sbiadito da vent’anni (ora che ci sono i soldi la Regione ha chiesto di commissariarla), le aree interne sono abbandonate a se stesse per colpa di una viabilità secondaria di cui nessuno si occupa. Anche in questo caso Musumeci aveva chiesto un commissario – il nome condiviso è quello di Gianluca Ievolella, provveditore delle opere pubbliche per Calabria e Sicilia -, ma da quasi due anni aspetta che Roma lo nomini. Pure la gestione del Cas, dove entra Anas, è assai impervia: in cinque anni nessuno è riuscito a rimuovere la frana di Letojanni, tanto meno il cellophane dalle colonnine del pronto intervento sulla Palermo-Messina. Per non parlare delle ferrovie, dove scorrazzano ancora le littorine a diesel e la maggior parte dei binari non è elettrificato. Uno sconforto.

Hai voglia a lamentarti se non hai le carte in regola. Perché il succo del discorso è questo: la Sicilia non ha le carte in regole per attrarre investitori, ma nemmeno per guadagnarsi il doveroso rispetto da parte di uno Stato che, negli anni, ha dilapidato fior fior di investimenti nel Sud del Paese. E l’ha fatta franca. L’ultima testimonianza arriva dall’Ars: né Micciché, né il Pd, né il Movimento 5 Stelle hanno notizie della Finanziaria di cartone, approvata sulla base di risorse incerte, che gli uffici non avevano e non hanno tuttora contabilizzato. Non è chiaro quali risorse europee potranno essere riprogrammate per dare respiro a famiglie e lavoratori colpiti dall’emergenza Coronavirus, che nel frattempo da emergenza si è trasformato in “status”. La Legge di Stabilità non è giunta neanche a Roma per una prima lettura e il famoso tavolo imbastito dall’assessore all’Economia coi ministri Boccia e Provenzano, e col viceministro all’Economia Misiani, non si sa che fine abbia fatto. Avrebbe dovuto determinare, d’accordo con le indicazioni di Bruxelles che ha sospeso il patto di Stabilità, una flessibilità di spesa pure per la Regione, che in questo modo avrebbe provveduto a liberare le risorse congelate. Un miraggio. Così come è un miraggio capire se la Sicilia potrà beneficiare di uno “sconticino” sul contributo regionale alla Finanza pubblica, che ci costa un miliardo l’anno. Anche questo aspetto è vincolato da un negoziato al Mef di cui nessuno ha più notizia.

L’ultimo contatto produttivo fra Palermo e Roma è avvenuto lo scorso dicembre, quando il Consiglio dei Ministri, in una vampata di generosità, ha deciso di concedere alla Sicilia di spalmare il proprio disavanzo con lo Stato in dieci anni (anziché in tre) in cambio della promessa dell’Isola di presentare entro 90 giorni un pacchetto di riforme che prevedesse, fra le altre cose, una limitazione della spesa corrente e l’abbattimento degli sprechi. Secondo voi è successo? No. E i termini sono slittati al 2021. Chissà che questo virus, in fondo in fondo, non torni utile a qualcosa.

La Regione, però, è la stessa che dopo più di due mesi fatica a garantire la cassa integrazione a tutti i richiedenti e non riesce a esprimere una riforma che sia una: il disegno di legge sulla semplificazione delle procedure amministrative, che il governo osteggia nella sua versione originaria, è al centro di una trattativa fra palazzo d’Orleans e Sala d’Ercole; quella sui Beni culturali proposta dalla V commissione, che non è piaciuta all’assessore Samonà (ma nemmeno agli ambientalisti e agli intellettuali), dovrà essere riscritta daccapo. Di sopprimere l’Esa o riformare i Consorzi di bonifica neanche l’ombra. L’unico passatempo preferito è foraggiare i grandi “carrozzoni” regionali, che nell’ultima Finanziaria hanno beneficiato di un lauto regalino (fino a 25 milioni per Riscossione Sicilia). Proprio come fa lo Stato con Alitalia: e allora, perché indignarsi?