Renato Schifani è afflitto dalla sindrome dei catanesi. Come il suo più grande rivale, Gianfranco Micciché. Ricordate l’ex presidente dell’Ars? Li vedeva ovunque: negli assessorati chiave (Salute e Turismo), alla guida dell’Irfis, a capo della struttura commissariale anti-Covid e persino nel Cda della Sinfonica. E’ uno dei motivi che l’ha portato alla rottura con Musumeci e al tentativo di imporre un candidato palermitano e di Forza Italia. Uno come Schifani, insomma. Finito l’idillio all’indomani delle Regionali, è rimasto il fastidio per il fronte etneo. Un’insofferenza che li accomuna.

Senza discriminazione territoriale alcuna, è un fatto che i principali avversari, nonché i pericoli più ricorrenti, per il governatore siciliano arrivino dalle falde dell’Etna. Guardate cos’è riuscito a combinargli Marco Falcone in quattro e quattr’otto: prima ha organizzato un meeting di Forza Italia a Taormina, nuovo ombelico azzurro, ospitando lo stato maggiore del partito; poi, da quella sede, ha sancito la rottura con Totò Cuffaro, grazie ad alcuni sponsor d’eccezione (Tajani e Gasparri), e stabilito la linea di FI in vista delle Europee: il partito non è un autobus.

Schifani ha mandato giù l’amaro calice senza diritto di replica. Ha incassato il colpo – cosa poteva fare di fronte al segretario nazionale? – ed evitando di difendere l’amico Totò, l’ha esposto alle intemperie. Potrebbe pagare a caro prezzo entrambe le mosse: dovesse andar bene, Falcone avrà guadagnato posizioni nel partito siciliano e nel cuore dei suoi maggiorenti romani, già ben disposti nei suoi confronti; dovesse andar male, le colpe ricadrebbero sull’attuale governance (il ventriloquio Marcello Caruso, ma soprattutto il presidente della Regione). La politica non è così diversa dal calcio, dove a pagare è sempre l’allenatore.

La minaccia falconiana, però, non è la sola. Da Catania Schifani ha ricevuto solo spallate. Risale al gennaio scorso l’attacco durissimo di Manlio Messina, ex assessore al Turismo, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera. Si parlava di Cannes e responsabilità, quando il Balilla non esitò a dipingere il governatore come uno sprovveduto: “Voi raccattate sagre di paese e fuochi d’artificio – fu l’accusa a mezz’aria -, noi pensiamo a rendere sempre più grande e conosciuta la nostra Isola nel mondo”. E ancora: “In merito all’edizione del 2023” della mostra ‘Sicily, women and cinema, “la proposta della Regione alla società Absolute Blue, quella della Absolute Blue alla Regione, la contrattazione, i termini su quanto spendere e come spendere quei soldi, tutto viene fatto in un arco temporale che va dal 20 ottobre all’11 novembre, ovvero quando io non sono più assessore al Turismo e non lo è ancora Scarpinato – disse Messina in tv -. L’assessore al Turismo ad interim, in attesa delle nuove nomine, era proprio il governatore Schifani (…) A questo punto, o Schifani non ha guardato le carte, e questo sarebbe gravissimo, oppure non le ha sapute leggere”.

Accuse di piombo a cui Schifani non replicò. Di recente, con un largo sorriso stampato in faccia, si è presentato alla kermesse organizzata dal Balilla a Brucoli, per parlare di turismo; e fu da lì che insabbiò il pregresso, annunciando al mondo di fidarsi ancora di Messina, tanto da sentirlo spesso per dei saggi consigli. Gli stessi che, inizio legislatura, sembrava dover chiedere a Ruggero Razza in materia di sanità. Ma con Musumeci e il suo pupillo, guarda caso due catanesi doc, i rapporti si sono infreddoliti. Altro esponente di Fratelli d’Italia che non va molto a genio il governatore è Enrico Trantino, il sindaco di Catania. Motivo del contendere? La Sac di Fontanarossa, una società controllata da remoto da Nicola D’Agostino, deputato di FI tra i più vicini al governatore. L’ex renziano ha piazzato un uomo a capo del Cda (l’ad Nico Torrisi) e, come se non bastasse, è riuscito ad accaparrarsi la nomina di Belcuore a capo della Camera di Commercio del Sud-Est (in qualità di commissario). Dopo l’inferno di fuoco che ha attanagliato l’aeroporto lo scorso luglio ed esposto l’Isola a una figuraccia internazionale, con sette persone indagate dalla Procura, Schifani ha difeso a spada tratta Torrisi e i suoi, Trantino ne ha chiesto le dimissioni in blocco. E non sembra desistere.

A causare il rogo, come si evince dalla relazione di due superperiti milanesi, potrebbe essere stata una ciabatta andata in sovraccarico. Ma è stata la gestione del “dopo” a separare le strade del sindaco, eletto a giugno con una maggioranza bulgara, e il presidente della Regione: “Per pretendere il rispetto dei doveri da parte dei cittadini, le istituzioni, per apparire credibili, devono assumersi le proprie responsabilità. E spesso, in un mondo di relazioni, per riavvicinarsi, per ricucire un rapporto, basta fare un passo indietro e sapere chiedere scusa (…) Non penso di avere colpe, ma sono socio di chi ha la responsabilità di gestire l’aeroporto e so che chi è parte di qualcosa che non ha funzionato, deve comunque avere l’umiltà di chiedere scusa. Specie se non lo fanno altri”. Trantino ne ha fatto una questione di reputazione, Schifani di potere. Ha difeso la Sac fin dall’inizio, convincendo Tajani a complimentarsi col suo Amministratore delegato per l’ingente sforzo prodotto in quei giorni d’inferno. Ma la Sicilia è rimasta paralizzata venti giorni, coi passeggeri stipati nei tendoni o a bordo di un autobus: avrà qualche ragione, oppure no, il sindaco ad invocare un repulisti?

Tra i personaggi che non lasciano sereno Schifani c’è infine il più catanese di tutti, anche se originario di Grammichele: si tratta di Raffaele Lombardo. Il leader del Mpa, che in un primo tempo era stato invitato a far parte del listone “aperto e plurale” con Cuffaro, ha maledetto l’asse tra Forza Italia e la nuova Democrazia Cristiana. Utilizzando una perifrasi: “A Palazzo d’Orleans sono tornato ogni tanto, è bene che però ci vadano altri dirigenti, perché o accettiamo la logica del confronto politico franco e aperto, oppure non ha senso. L’autonomia – disse Lombardo durante un’assemblea autonomista a Palermo – confligge con la pratica che io vedo esercitare indegnamente da quelle parti, dell’adulazione, della delazione e del servilismo”.  Altri attacchi sono stati sferrati sul metodo per la nomina dei manager della sanità, e sul tentativo di “espropriare un assessore capace, bravo, volenteroso e trasparente come Roberto Di Mauro dalle competenza sui rifiuti e sui termovalorizzatori”. Non da ultimo, il leader del Mpa è corso tra le braccia di Matteo Salvini per costruire una federazione che, all’indomani delle Europee, potrebbe rimettere in discussione la spartizione degli assessorati e del sottogoverno, evitando che la coalizione finisca schiacciata su Totò.

C’è un ultimo catanese, Gaetano Galvagno, che pur avendo rafforzato l’intesa con la corrente turistica di Fratelli d’Italia e col Balilla, resta coperto. Che nonostante i rimbrotti frequenti rispetto all’azione del governo – incapace di mettere “carne al fuoco” – preferisce fare buon viso a cattivo gioco. Il suo ruolo di presidente dell’Assemblea lo costringe a un’obbligata compostezza. Anche se, considerato il talento e il fiuto politico, non gli sarà mancato modo per esprimere un giudizio (negativo) e lamentarsi, ove necessario, dell’operato del presidente. Purché resti fra noi.