C’è il piano della giustizia e il piano della politica. Paradossalmente, Gianfranco Micciché, tirato in ballo dalla prima, non potrà difendersi. Il suo nome, infatti, non compare nel registro degli indagati della Procura di Palermo sebbene le sue foto, prive di valenza probatoria, siano finite nell’ordinanza di custodia cautelare e trasmesse ai giornali. Al contrario, però, l’ex commissario regionale di Forza Italia, deve mettersi al riparo dagli schizzi di fango che provengono dai “forcaioli” che ne chiedono le dimissioni per essersi recato a Villa Zito – non si sa bene a fare cosa – con l’auto blu e il lampeggiante acceso. Perché se fosse vera la versione di Micciché, che non potrà mai avere un confronto con gli inquirenti (dovrà limitarsi semmai a qualche intervista), forse una verità processuale verrebbe a galla. E invece no: rimarranno i sospetti e le male lingue, quelle che spesso rovinano i cristiani senza farsi scrupoli.

Fuori dai tribunali, come detto, è un gioco al massacro. Anche se la politica, in questa occasione, si è mostrata meno spregiudicata (pensate a uno come Cuffaro, perseguitato anche dopo aver scontato una condanna di 5 anni a Rebibbia). Se prima i grillini erano subito quelli del “buttate via la chiave”, oggi qualcosina è cambiata: “Apprendiamo dalla stampa che l’ex presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché, avrebbe acquistato droga anche usando l’auto blu di rappresentanza. La vicenda, ove confermata, sarebbe inaccettabile e non farebbe certo bene all’immagine delle istituzioni, contribuendo ad allargare il solco, sempre più ampio, tra politica e cittadini”. Lo stesso gap che, a inizio anno, si è allargato per l’omesso controllo sul bilancio interno dell’Assemblea, che ha determinato lo scatto delle indennità per 70 parlamentari. Siamo a un livello di discussione privo di sacralità: la questione morale, all’interno delle istituzioni, è altra cosa.

Uno di quelli che ha provato a buttarla in caciara – ma l’episodio è rimasto isolato – è l’onorevole Ismaele La Vardera, uno dei più in vista di ‘Sud chiama Nord’, il partito di Cateno De Luca: “Io non gioirò mai delle disavventure altrui, ma caro Miccichè la cosa grave è sapere che i fiumi di cocaina che arrivano in città vengono gestiti dalla mafia – ha detto La Vardera -, e sapere che quella coca “avrebbe viaggiato in auto blu con lampeggiante” mi lascia senza parole, provo vergogna. Nella vita bisogna avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità, Gianfranco te lo dico senza troppi giri di parole: dimettiti”. Intanto, vieni crocifisso. L’indagine della Procura ha offerto all’ex Iena di salire sul palco di cartapesta che spesso, nella storia, è stato appannaggio di demagoghi e populisti d’ogni tipo. Spregiudicati, talvolta. Quasi mai sensibili alle prerogative costituzionali come lo Stato di diritto. Né, come in questo caso, a un episodio di vita privata che (se confermato) è un intriso di debolezze umane e non un reato da collezionismo.

Eppure non basta essere rivali per poter odiare. Anche perché sulla fine politica di Micciché, a cui la vicenda di Villa Zito contribuisce ulteriormente, s’era già scritto e detto tanto. Ma da un paio di mesi a questa parte, forse, qualcuno sta esagerando. Oltre al diretto interessato, che avrà le suo buone ragioni per crederlo, ha alzato la voce anche Cateno De Luca (che pure di Micciché è stato a lungo rivale): “Io ci sono passato nella gogna mediatica, la mia famiglia c’è passata – ha detto il sindaco di Taormina in una diretta social -. Lasciando stare il merito, io in quel ristorante di cui si parla ci sono stato, due o tre volte, con Miccichè, per colazioni di lavoro e c’erano altri a discutere di politica. Non accetto la strumentalizzazione che è stata fatta di una persona che, comunque, non è indagata. Di chi è il bersaglio Miccichè?”. Su quest’ultimo interrogativo si potrebbe aprire un capitolo enorme. Basta usare le interviste di Micciché più recenti, non essendogli rimasto molto altro.

La prima, di ieri, è quella con Felice Cavallaro del Corriere della Sera. E contiene parecchi spunti interessanti. Il primo sul “codice linguistico” denunciato dalle intercettazioni. Secondo la Procura, “cinque giorni” equivale al numero delle dosi richieste al suo presunto fornitore: “Forse non tutti sanno che (a Villa Zito, ndr) c’è sempre un tavolo per me – replica il forzista -. E quando lascio Palermo avverto. Per evitare che gli resti un tavolo vuoto. Accadde quel novembre. Devo aver detto “cinque giorni”. Ma riferiti a una partenza per Milano, a un soggiorno a Gardone Riviera, Villa Paradiso, camera 142. Ecco la fattura dell’albergo, per fortuna conservata, trovata dalla mia segretaria”. Poi Micciché si appella anche sul metodo delle intercettazioni passate ai giornali con troppa nonchalance: “Mi chiedo: si potevano fare, visto che a fine 2022 ero senatore? Si possono pubblicare oggi? È una cosa da Paese civile? Comunque, perché esce il mio nome? Io non sono indagato e non potevo essere intercettato. Se poi tutto serve a sputtanare…”.

Che l’ex presidente dell’Ars si sentisse sotto attacco – da qui l’ipotesi di “persecuzione politica” sostenuta dal diretto interessato – emerge da un paio di precedenti. Il 15 aprile, a distanza di qualche giorno dall’arresto di Di Ferro, beccato mentre consegnava la cocaina a un burocrate dell’Ars, ex capo della sua segreteria tecnica, Micciché esce con un’intervista su Repubblica: “Se c’è qualcuno che immagina ancora di poter colpire Micciché, è bene che si rivolga a uno psicoanalista bravo. Non mi sembra ci sia alcuna motivazione per tentare di colpirmi, mi sono sempre considerato libero di parlare e dire quello che penso perché sono una persona non ricattabile”. E ancora, in riferimento all’episodio: “Qualcuno avrà avvertito le forze dell’ordine, altrimenti perché avrebbero dovuto fermarli? Qualche dubbio sul possibile coinvolgimento di persone che non dovrebbero entrarci niente secondo me c’è”. Non fa nomi.

Poi ricade nell’anonimato (politico), dov’era piombato l’11 marzo con le dimissioni da commissario regionale di Forza Italia e la vittoria del fronte Schifani-Caruso. Fino al ritorno da Milano, dove il 14 giugno aveva assistito ai funerali di Silvio Berlusconi. Quella notte accade una stranezza e Micciché, furibondo, la denuncia: la sua scorta aveva trovato un Gps sotto l’auto che l’ha riaccompagnato a casa dall’aeroporto di Punta Raisi. Uno strumento utile a tracciare i suoi spostamenti. Le forze dell’ordine intervengono, impediscono a Micciché di utilizzare l’auto per qualche ora, poi gli restituiscono il dispositivo: “Sono stato in cinque governi nazionali e per venti anni sono stato al governo. Alcuni meccanismi li conosco, so come funzionano queste cose. E so pure chi lo ha fatto mettere”. A denunciare l’attività di presunto spionaggio, oltre all’ex presidente dell’Ars e sottosegretario, è anche un’interrogazione depositata dalla senatrice Daniela Ternullo a Palazzo Madama: “È intollerabile che nella nostra democrazia gli esponenti politici siano oggetto di sorveglianza illegittima e minacce alla loro sicurezza personale”. Micciché si limita a una speranza: che la procura indaghi. In effetti stava già indagando: sul giro di droga della Palermo “bene” e sulle sue abitudini. E’ l’inizio di un’altra partita: l’ultima della sua carriera politica?