Quella che viene fuori dal racconto di Gery Palazzotto, giornalista che assieme al collega Salvo Palazzolo ha scritto il testo de “I traditori”, è l’immagine di un teatro in missione. Non di un uomo – loro sarebbero in due, ma c’è un contorno non indifferente – bensì di un teatro. Il Massimo di Palermo porta in scena l’operazione-verità. O meglio: il tentativo di affrancarsi da un’antimafia ciarlatana all’interno di un luogo insolito, che, grazie a tre musicisti, un narratore e un maxi schermo celebra un format innovativo: quello dell’inchiesta.

Strano che avvenga al Massimo, il primo teatro d’opera italiano, il terzo d’Europa. Ma bisogna allargare gli orizzonti per permettere a tutti, ma proprio a tutti, di comprendere il significato. Delle prove. Delle parole. Delle anomalie. Per scardinare il muro dell’ingiustizia e del silenzio, che per troppo tempo l’hanno fatta da padrona. Si chiama “I traditori” lo spettacolo portato in scena il 23 maggio, giorno dell’anniversario (siamo ormai al ventisettesimo) della strage di Capaci, e il 24, in replica per una platea di ragazzi. Entrambe le date fanno segnare il sold-out. Tutto esaurito. Ma non sono affatto esauriti i temi delle stragi, che conservano una patina di rabbia, di imperfetta conoscenza. E bisogna ripartire da lì nel racconto, secondo Palazzotto. Dalla fame di verità. Il viaggio è utile per costruirsi un’idea propria e non essere depositari, per forza, di quello che per anni, decenni ci hanno inculcato.

“Alla fine di questo racconto la nostra prima reazione è stata: ma come è possibile? Eppure la storia è vera, è tutto certificato – spiega Gery Palazzotto – Sul palco c’è un maxischermo che è esattamente il luogo dove si formano le prove per ogni cosa che diciamo”. Che dice Gigi Borruso, con la sua inarrivabile interpretazione. Accompagnato da tre musicisti – Marco Betta, Fabio Lannino e Diego Spitaleri – che permettono alle note di fondersi al racconto: “La narrazione è ciò che noi definiamo un patto di verità con lo spettatore, il quale deve essere cosciente che tutto ciò che viene raccontato in questo spettacolo è vero. Ci sarebbe la tentazione, alla fine, di dire “com’è possibile”. E’ successo anche a noi. Perché il quadro che ne emerge è impressionante”.

Il tema è stato lambito e approfondito nella prima opera di Palazzotto e Palazzolo, che lo scorso anno di questi tempi veniva portata – su commissione del medesimo Teatro Massimo – anche all’Università di Palermo. Si chiamava “Le parole rubate”. Cercava di stritolare il mistero attorno a cui erano avvolti un paio di episodi riferibili a Capaci e Via d’Amelio: i file del computer di Giovanni Falcone “che dopo la strage i magistrati di Caltanissetta lasciarono senza custodia” e la famosissima agenda rossa di Paolo Borsellino, da cui prende vita il più grande depistaggio della storia d’Italia. “Ma qui alziamo il tiro e cominciamo a raccontare l’opera indegna dei traditori che si trovano a tutti i livelli – argomenta Palazzotto – E’ vero, la mafia ha avuto un ruolo, reale e anche strategico, per l’organizzazione delle stragi. Ma abbiamo anche la ragionevole certezza che è soltanto un passaggio di questa storia. Ci sono altri ruoli che portano alle cosiddette “menti raffinatissime” di cui parlò Falcone dopo il fallito attentato dell’Addaura. Questi traditori hanno lasciato delle tracce e noi le abbiamo seguite tutte, messe in fila e tracciato un loro identikit”.

Non mancano sorprese e coup de theatre, che al momento è vietato svelare. Ma una certezza esiste ed è la seguente: “Tutto questo non ha minimamente a che fare con l’antimafia parolaia o di facciata, il cui funerale è stato celebrato di recente nelle aule di giustizia. Noi – spiega Palazzotto – cerchiamo di compiere, molto modestamente, un’operazione-verità. Non siamo complottisti ma realisti. Gigi Borruso comincia a muoversi nei meandri di questa storia senza avere la scienza infusa. Non ha la pretesa di dire: “questa è la storia, ve la racconto io”. Anzi, entra in scena con una frase molto evocativa: “Il più grande inganno che il diavolo abbia potuto fare è convincerci che non esiste”. La narrazione si fa interiore, non è soltanto ripetere quanto sono bravi Falcone e Borsellino”.

L’antimafia a teatro è diversa, e vuole esserlo, dalle antimafie fuori. Secondo Palazzotto, non c’è il rischio di cadere nella banalità, nella retorica: “Io non ho mai pensato che ci fosse un’antimafia giusta o sbagliata – spiega uno dei due autori – Ma che c’è una ricerca della verità che è un modo di fare antimafia – reale – e che, per carità, può essere anche militante. Penso alle migliaia di giovani che sono venuti a vederci all’Università, lo scorso anno. E ripenso al silenzio impressionante che ha accompagnato lo spettacolo. Non avevo mai visto un’attenzione così palpabile, un applauso finale così liberatorio. Ci ha annichiliti. Ecco, questo è un tipo di antimafia militante che mi piace. E’ l’antimafia di chi fa domande e vuole risposte perché vuole vivere bene. Non ci costruisce carriere e partiti politici. Non usa i “mezzucci” per favorire gli amici o gli amici degli amici. L’antimafia alla quale noi puntiamo è quella della presa di coscienza, anche critica. Molti di questi ragazzi non erano nemmeno nati all’epoca delle stragi. Che immagine hanno? Il simulacro che una certa antimafia gli ha inoculato, e invece sono loro che si devono fare un’idea”. In fondo si potrebbe chiamare antimafia della conoscenza: “Solo in questa maniera si può capire il grande inganno che è stato fatto ai danni di questa nazione, oltre che dei parenti e delle vittime”.

E c’è ancora un aspetto, prima di invitarvi a teatro, da analizzare. Che poi è il teatro stesso, dove la ricerca della verità si insinua. E’ una sfida che richiede coraggio e passione. Lo sottolinea Palazzotto, nel ringraziare il sovrintendente del Massimo, Francesco Giambrone: “Io e Salvo Palazzolo gli abbiamo proposto il lavoro due anni fa. Non se l’è fatto ripetere due volte. Ci vuole coraggio, non il nostro ma in generale, a portare in scena in un teatro d’opera – dove suonano e cantano i più grandi e si celebra il sublime – un’inchiesta del genere. E’ un regalo alla città di Palermo. Per noi è troppo importante recapitare al pubblico dubbi e retroscena. Per farlo bisogna immergersi in quegli anni, in quel clima, in quei personaggi e farsi una domanda fondamentale: com’è possibile che, fino a oggi, l’unico colpevole del depistaggio di via D’Amelio sia Arnaldo la Barbera, cioè un morto?”.