Partiamo da una domanda semplice semplice: ma noi sapremo mai la verità? Riusciremo mai a scoprire che cosa ha combinato lo stragista Matteo Messina Denaro in trent’anni di latitanza? Riusciremo a scrivere la parola fine nella disputa da bar nella quale si esercita in queste ore il fior fiore dell’antimafia? Li avete già visti: da un lato ci sono quelli che credono nell’eroismo del Ros, e rendono doverosamente onore ai carabinieri che hanno buttato sangue e sudore pur di arrestare il boss che, con i sanguinari corleonesi di Totò Riina, seminò tra il ’92 e il ‘93 morte a terrore a Capaci e in via d’Amelio, massacrò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e non esitò a sciogliere un bambino nell’acido. Dall’altro lato ci sono invece quelli che non credono all’indagine da manuale – senza soffiate e senza pentiti – e vanno in televisione a sostenere che il clamoroso blitz del 16 gennaio alla clinica “Maddalena” di Palermo altro non era che la cinica sceneggiatura di una fiction, la trama insopportabile di una nuova trattativa, il capitolo finale del patto scellerato che da tempo immemorabile lega gli uomini mascherati dello Stato al limaccioso mondo delle mafie. “Si è consegnato”, dicono. E così dicendo gridano allo scandalo, alla mistificazione, all’imbroglio. Fra poco – diciamolo per paradosso, ma diciamolo – chiederanno ai Ros di pentirsi, di discolparsi, di vestire il saio della gogna, di sfilare come magliari e millantatori negli studi televisivi di Giletti e di genuflettersi davanti a Salvatore Baiardo, il sensale dei fratelli Graviano già pronto per altre interviste e altre profezie e già in corsa, perché no, anche per una comparsata al festival di Sanremo.

No. La verità, nelle cose di mafia, non è mai a portata di mano. Per acciuffarla, come per i latitanti, servono tempi lunghi, lunghissimi. Biblici. Pensate che, dopo trent’anni, procure, tribunali e corti d’appello sono ancora lì che cercano di fare luce sul mistero delle stragi; che indagano sulle trame oscure e sulle complicità eccellenti; che non si accontentano degli ergastoli già inflitti a mandanti ed esecutori. Vogliono a tutti i costi aprire i tabernacoli del terzo livello e neutralizzare, in un colpo solo, padrini e papaveri della politica seduti al tavolo ovale. Nessun ostacolo li farà retrocedere. E se, in questa lotta eroica e straordinaria, qualcuno gli ricorderà che Giovanni Falcone, il giudice che per primo portò dietro le sbarre la cupola di Cosa nostra, non credeva al terzo livello né al tavolo ovale, loro risponderanno che tra le dichiarazioni dell’ultimo pentito ci sono sufficienti spunti investigativi per superare quelle convinzioni; e chi se ne frega di Falcone.

Durano trent’anni le latitanze e durano trent’anni anche i processi per mafia. Una eternità. Nel giorno successivo alla cattura, Matteo Messina Denaro era atteso nell’aula della Corte d’Assise di Caltanissetta dove, manco a dirlo, si stava celebrando l’ennesimo processo sulle stragi di Capaci e via D’Amelio e dove l’imputato era proprio lui, il terribile boss di Castelvetrano. Giudici togati e giudici popolari erano già in gran fermento. Giornalisti e operatori della tv facevano a gomitate per assicurarsi l’inquadratura più ravvicinata. Il collegamento con il carcere di massima sicurezza dell’Aquila era stato collaudato nelle prime ore del mattino e il grande schermo campeggiava già alla destra del presidente della Corte, Maria Carmela Giannazzo. Dentro il grande schermo però c’era solo una sedia vuota, guardata a vista dall’agente penitenziario che avrebbe dovuto sorvegliare il detenuto mentre il procuratore generale Antonino Patti gli avrebbe rivolto le domande più affilate, quelle studiate da chissà quanto tempo per scavare nella memoria del boss e scrivere così la prima pagina del libro più ambizioso e aleatorio: il libro della verità. Ma il boss, che è ammalato di tumore, non si è presentato: “ragioni di salute”. E il rappresentante dell’accusa ha chiesto il rinvio dell’udienza al 9 marzo. Chi vivrà vedrà.

Quella sedia – dicono i mafiologi – resterà vuota ancora a lungo. Anche perché, tra non poco, al carcere dell’Aquila, dove Matteo Messina Denaro è ristretto al 41bis, si snoderà la lunga processione degli inquirenti e degli inquisitori che, da trent’anni e passa vogliono scrivere – o riscrivere – una pagina di verità. Il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia, e l’aggiunto Paolo Guido lo hanno già sentito subito dopo la cattura: avevano coordinato loro l’operazione dei Ros ed è toccato a loro stendere il primo verbale. Ma siamo ancora alle informazioni sommarie, tutto il resto è da venire. Intanto però si scaldano le altre magistrature. Volete che Luca Tescaroli, della direzione distrettuale antimafia di Firenze, non si faccia sentire? Nelle segrete stanze della procura fiorentina ci sono fascicoli ancora caldi e ancora aperti: c’è l’inchiesta sulla strage dei Georgofili, il capitolo più nero dell’assalto mafioso alle città del nord Italia; nero e straziante: non è facile dimenticare la commovente poesia – un presagio in quel titolo: “Tramonto” – scritta da Nadia Nencioni, la ragazzina di nove anni uccisa il 27 maggio del 1993 assieme al padre, alla madre e la sorella nella devastante esplosione. E c’è soprattutto l’inchiesta che tira in ballo – come registi occulti dei Georgofili e delle altre stragi – due teste coronate della politica: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ex presidente del Consiglio e l’ex senatore di Forza Italia sono stati già indagati e archiviati, per le stesse accuse, in tre altri procedimenti avviati, con il conforto dei pentiti, dalla procura di Caltanissetta. Ma non si sa mai. Tescaroli, che è un magistrato coraggioso e di grande esperienza, saprà come inchiodare Matteo Messina Denaro ai propri rimorsi e alle proprie responsabilità. E chissà che le sue domande non portino il boss verso i lidi rassicuranti del pentimento. Se parlerà, ci saremo tolti un peso: avremo finalmente la prova che per trent’anni l’Italia è stato il paese degli inganni, delle verità nascoste, del doppio gioco, delle nefandezze, delle indicibili collusioni tra potere politico e potere criminale. Se non parlerà si cercheranno altre prove, altre testimonianze, altri documenti. Si impiegheranno, se necessario, altri trent’anni ma la verità, come i latitanti, non la farà franca: prima o poi un magistrato coraggioso la afferrerà per i capelli.

Dopo Tescaroli, probabilmente andrà all’Aquila, per cercare un indizio o una rivelazione, pure Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e punta di diamante del processo sulla ‘ndrangheta stragista. Lui ha avuto tra le mani i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss di Brancaccio, già condannati all’ergastolo per tutte le stragi. Il più grande dei due, Giuseppe, ha inviato alla Corte d’Assise del capoluogo calabro, un lungo memoriale con il quale si è sciacquata la bocca nei confronti di Berlusconi: ha scritto che suo nonno aveva portato a Milano carrettate di piccioli, almeno venti miliardi di lire, quando il Cavaliere cercava capitali per costruire il proprio impero. Ma Berlusconi, anziché mostrare la doverosa gratitudine a tutta la famiglia, ha poi misteriosamente agevolato la sua cattura. Giuseppe Graviano ha lasciato cadere la cosa con nonchalance, senza spingersi oltre. Ma la toccatina di polso, come dicono i picciotti di mafia, non è sfuggita a chi da anni dà la caccia al kaimano. Volete che il procuratore Lombardo non vada da Messina Denaro per decifrare i messaggi sparsi nelle cinquanta pagine inviate dal boss ai giudici di Reggio Calabria? Al tempo delle stragi i Graviano rappresentavano, come Matteo Messina Denaro, detto “u siccu”, l’ala più giovane, più istruita e più spregiudicata di Cosa Nostra. Si spostavano da Palermo a Roma e da Roma a Milano. Traccheggiavano con la politica e con la finanza. Se Messina Denaro parlerà conosceremo i segreti nascosti nei sotterranei del potere. Se non parlerà, diremo – per altri dieci anni o altri sette o sette volte sette – che il boss di Castelvetrano ha voluto coprire, con il suo ostinato silenzio, gli stessi uomini delle istituzioni che per trent’anni hanno coperto e protetto, con un gioco losco, la sua latitanza.

Sì, sarà una processione. Se non bastassero le procure di Palermo, Firenze e Reggio Calabria, si muoverà la procura nazionale di Giovanni Melillo dove fra poco rientrerà, con gli onori di ex membro del Csm, Nino Di Matteo, il più coraggioso tra i magistrati coraggiosi. Prima di approdare al Consiglio superiore della magistratura, è stato l’eroe della Trattativa. Per cinque anni ha battagliato nel bunker dell’Ucciardone per dimostrare davanti alla Corte d’Assise le accuse contenute nella mastodontica istruttoria condotta, fino al rinvio a giudizio, da Antonio Ingroia e incardinata sulle rivelazioni del pataccaro Massimo Ciancimino, figlio di quel don Vito, che fu sindaco di Palermo e, all’un tempo, affiliato alla cosca corleonese di Totò Riina. Era, quel processo, la summa theologica di tutti i complotti e di tutte le dietrologie. Una “boiata pazzesca”, l’ha definita Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale all’università di Palermo. Ma Nino Di Matteo ci ha creduto fino in fondo: non ha mancato un solo dibattito televisivo, ha girato in lungo largo l’Italia, ha scritto libri, ha ricevuto più di cento cittadinanze onorarie ed è stato anche lì per lì per diventare, su indicazione di Beppe Grillo, ministro della Giustizia. I giudici di primo grado gli hanno dato comunque ragione ma la Cassazione, con la sentenza di assoluzione per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ha smontato il teorema. Ora la stessa Cassazione dovrà dire la parola definitiva sull’assoluzione in appello degli altri imputati – Mario Mori, Giuseppe Di Donno, Antonio Subranni: tutti alti ufficiali del Ros – che, a differenza di Mannino, non hanno scelto il rito abbreviato e hanno affrontato, assieme a malacarne del calibro di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, il dibattito d’aula. Di Matteo però non è un pubblico ministero votato alla rassegnazione. E Matteo Messina Denaro potrebbe essere, per tutta la filiera di magistrati che hanno creduto nella Trattativa, l’uomo del miracolo. Della rivincita, si stava per dire.

Per togliersi dall’impaccio di lunghi e faticosi interrogatori basterebbe che il boss, ora detenuto a l’Aquila, dicesse in quale covo ha nascosto i documenti che – secondo le rivelazioni dei più autorevoli pentiti della stagione maledetta – si trovavano fino all’alba del 15 gennaio 1993 nella villa di Totò Riina, al centro del quartiere Uditore di Palermo. E che furono trafugati, subito dopo l’arresto del Capo dei Capi, dai picciotti della cosca, agevolati dal fatto che il colonnello Mario Mori e il capitano Ultimo, autori del blitz, avevano rimandato di qualche giorno la perquisizione delle stanze e della cassaforte. Quelle carte, così scottanti e così compromettenti, sono state consegnate – sempre secondo i pentiti – al giovane Messina Denaro che, nei giorni del trambusto e dello smarrimento, veniva considerato il più probabile successore di Riina.

Se quei documenti venissero fuori sarebbe un momento di gloria per l’antimafia dei retroscena. Si alzerebbero, con un solo scatto, tutti i sipari. Si allontanerebbero le ombre, si diraderebbe tutta la nebbia. I giornalisti e i dietrologi che da anni fanno da corona a Nino Di Matteo già pregustano l’anteprima che inevitabilmente spetterà a loro, solo a loro; ma, pur con tutta la fantasia di cui sono portatori i romanzieri di mafia, è difficile ipotizzare quali accordi malsani potranno rivelare i documenti consegnati dagli uomini di Riina a Matteo “u siccu”. Sempre che esistano. Verrà fuori un accordo sottoscritto, con tanto di firme in calce, tra il boss e alcuni uomini politici? Un’intesa ferrigna e irreversibile tra il boss e alcuni imprenditori? Un patto di sangue tra il boss e Marcello Dell’Utri o tra il boss e Silvio Berlusconi? Ci sarà il pizzino di un capo della polizia o di un generale dei carabinieri consegnato brevi manu al boss o un papello trasmesso, sempre brevi manu, dal boss a vertici istituzionali dello Stato? Si troverà finalmente la prova scritta e lampante di una mano d’aiuto data ai mammasantissima di Cosa Nostra da un agente dei servizi segreti, ovviamente deviati, o di altri funzionari dello Stato, ovviamente inquinati?

Quelli che già immaginano un faccia a faccia tra Matteo Messina Denaro e Nino Di Matteo, ammettono candidamente che non sarà un pranzo di gala. Ma l’antimafia che gioca in grande sa che nessuna battaglia è mai persa. Se non sarà possibile scrivere il grande libro della verità si potrà sempre scrivere un libro sul patto sporco che ha portato all’arresto del boss di Castelvetrano. O un libro sulla nuova Trattativa. E poi andare in giro per l’Italia e predicare, con lo zelo dei catecumeni o dei chierici vaganti, che la mafia è invincibile e che i Ros, spaccandosi le ossa per catturare i latitanti, hanno solo perso tempo. La testa del serpente chissà dove sarà. Ne parleremo per almeno altri trent’anni.