Può succedere che la Lega, con una inversione di centottanta gradi, entri in un governo presieduto da Draghi, europeista convinto ed economista che si richiama al solidarismo cattolico. Può succedere che, da fans di Trump, di Putin di Orban, da fautori dell’Italexit, da quelli del no euro e della flat tax, da fieri difensori delle frontiere che hanno presidiato con bazooka caricati a odio e a paura, da biechi sovranisti, quelli del Carroccio diventino disponibili per un governo che mira a rinsaldare l’unità del continente attorno ai valori della democrazia liberale e solidale.

Può essere che accettino di riformare il sistema fiscale con i criteri della progressività, di accogliere chi approda sulle nostre coste con diritto di asilo, di integrare quanti vivono in mezzo a noi, rispettano le leggi, contribuiscono alla formazione della nostra ricchezza e chiedono di avere riconosciuta piena cittadinanza.

Detto così sembra il racconto di un miracolo e, si sa, i miracoli non avvengono di frequente. Eppure potrebbe capitare che, almeno in parte, il miracolo si realizzi, non per opera dello Spirito Santo, ma, più prosaicamente, per la spinta degli interessi del Nord, di quella vasta e ricca area sempre più integrata in una macro regione europea. L’odore degli “sghei”, il sano pragmatismo di chi ogni giorno scambia beni e servizi con i tedeschi, i francesi e gli austriaci, potrebbero avere indotto i vertici della Lega a cambiare registro, potrebbero aver fatto capire a Capitan Uncino che professare le più stravaganti teorie politiche ed economiche, urlare contro un nemico sul quale orientare l’invidia e l’odio di chi per conto proprio ha dei problemi, lasciare che quelli con le corna si diano annualmente convegno sul pratone di Pontida e che due improbabili economisti sparlino di ritorno alla lira e di autarchia, non serve più. Nel momento in cui ci sono oltre duecento miliardi da impiegare per far ripartire il Paese, tutto ciò rischia anzi di far male agli interessi delle regioni del Nord. Occorre partecipare ai tavoli della decisione, buttar via le felpe, riporre in tasca le coroncine del rosario, indossare la grisaglia della festa e prendere atto che gli interlocutori dell’Italia non sono quelli finora praticati da Salvini.

E chissà che – altro miracolo nel quale sperare – non si scopra che l’eroe del Papeete e il fiero difensore delle frontiere non è più l’uomo giusto per guidare un partito che dovrà adottare linguaggio e postura completamente diversi da quelli fino ad ora assunti e rapportarsi con Macron e non con Le Pen, con Merkel e non con i neonazi tedeschi, con Biden e non più con Trump.

In pochi mesi molte cose sono cambiate sotto il cielo della politica italiana. Il Movimento cinque stelle è passato da mai alleato con alcuno ad alleato con tutti, in un processo di maturazione che prosegue con difficoltà e scossoni e che, di tanto in tanto, mostra un regresso, un ritorno a liturgie stanche e sempre più svuotate di valore come la votazione sulla piattaforma Rousseau per fingere di delegare agli iscritti la scelta di appoggiare Draghi, bell’e adottata dai parlamentari e “gentilmente” loro imposta dal garante Grillo.

Berlusconi ha colto al volo una imprevista fortuna, sfuggendo alla prigionia di Salvini e tornando al governo dove, come sempre, avrà un occhio alla roba e uno agli interessi del Paese. A fidanzato di molte italiane, il cavaliere aggiunge il ruolo di padre della patria, accettato e blandito anche da coloro che dichiaravano che con lui non avrebbero mai preso un caffè.

Fratelli d’Italia non farà parte del nuovo esecutivo. Resterà all’opposizione come “sentinella della democrazia”, dice la Meloni. Una forza con caratteri ideologici molto netti e parecchio meno della Lega espressione degli interessi di ceti produttivi, può scegliere il disimpegno e puntare a intercettare i consensi di chi non condividerà le decisioni del nuovo governo, tentando, così, di vincere la gara per la leadership a destra. Fare da “sentinella della democrazia” può essere utile per il suo buon funzionamento. Bisogna, comunque, informare la “patriota”, prima che monti di guardia, che la parola d’ordine non è più “vincere e vinceremo”, quella di ottant’anni fa, quella che non portò nulla di buono agli italiani.

Da tempo i sondaggi assegnano al Partito democratico il venti per cento dei consensi. Non è proprio quello che ci si attenderebbe da una forza con una notevole tradizione e una classe dirigente di buon livello. Tuttavia, dopo tre scissioni, non è neppure male.

Il problema, semmai, è che a dichiarare il voto per il Pd in prevalenza sono i pensionati e gli anziani e meno i lavoratori e i giovani. Se la voce di un partito di sinistra non arriva a coloro che dovrebbero essere i suoi più naturali interlocutori, quel partito ha un grosso problema. Forse dovrebbe alzare i toni, trovare parole nuove, presentarsi con una fisionomia più netta e marcata, per ottenere di essere riconosciuto da quello che un tempo era il suo naturale bacino di consenso. Questa è una scelta ancor più necessaria ed urgente se il Pd dovrà governare per qualche tempo insieme ai partiti di destra. Marcare la diversità in modo evidente serve a chiarire che le differenze tra destra e sinistra non sono scomparse e che la speranza di una vita e di un lavoro dignitosi, il bisogno di giustizia e di eguaglianza di tanti cittadini devono trovare chi li sappia intercettare e trasformare in valore politico.

Da vecchio arnese della politica, malgrado la stima per Draghi, che anche a me, come a Di Maio, fa buona impressione, potrei avere qualche perplessità sul nuovo governo. Resto fermo alla tradizione dei paesi democratici e al dettato della nostra Costituzione: la democrazia si fonda sui partiti come strumenti di raccordo tra lo Stato e i cittadini. Poi penso che proprio la profonda crisi dei partiti ha costretto il presidente della Repubblica a ricorrere ad una soluzione eccezionale ed infine mi induce ad una posizione meno ostile la netta contrarietà a Draghi di Travaglio e del suo giornale, che si vedono sottrarre il ruolo di suggeritori del governo, in particolare sul versante del giustizialismo, non trovano più Bonafede al ministero di Giustizia e non tollerano che in sostituzione non venga proposto Davigo.

Non aveva torto la Moratti quando, poche settimane fa, chiedeva che i cittadini lombardi fossero vaccinati per primi perché più degli altri contribuiscono a formare la ricchezza del Paese. Senza inutile ipocrisia, Moratti rivendicava che anche in Lombardia venisse confermato ciò che avviene in gran parte del mondo di oggi e che è avvenuto in quello di ieri. Quando mai ai suoi inquilini questo mondo ha assicurato uguali diritti e perché dovrebbe farlo proprio ora, quando imperversa la pandemia che, peraltro, ha già fatto guadagnare a dieci dei suoi sette miliardi di abitanti giusto sette miliardi di dollari? Stiamo con i piedi piantati a terra. A molti dei paesi poveri il vaccino costa tre volte tanto che ai paesi ricchi. Il governo della Tanzania nega l’esistenza del Covid e così evita d’impegnarsi nel tentativo di fermarlo. In molte nazioni del cosiddetto terzo mondo nove cittadini su dieci non saranno vaccinati perché i governanti non hanno i soldi per comprare i vaccini e perché essi sono stati già acquistati da quelli che i soldi li hanno. Al negazionista Bolsonaro dispiace che qualcuno muoia, ma “tanto tutti moriremo, un giorno”. Gli africani e molti dei sudamericani nella migliore delle ipotesi saranno vaccinati a partire dal 2024. Continua a valere ciò che in gran parte di questo nostro pianeta è sempre valso: più si è poveri e più si paga. E i morti poveri non serve contarli, non fanno neppure statistica.

Nella millenaria storia della Chiesa, per la prima volta il Papa ha nominato sottosegretaria del sinodo con diritto di voto una donna francese e una donna della Nigeria assumerà la guida dell’organizzazione mondiale del commercio. Ci vorrà magari del tempo, ma vuoi vedere che anche in Sicilia prima o poi una donna potrà far parte della giunta regionale?

C’è gran fermento in vista delle prossime elezioni comunali di Palermo, specialmente all’interno del cosiddetto centro, un luogo della politica che, malgrado non esista più da tempo, viene costantemente evocato. In quel territorio dell’utopia si conducono grandi manovre per la candidatura a sindaco da parte di un buon numero di aspiranti, tutti forniti di ottimi curricula politici e professionali, tutti generali con il petto pieno di decorazioni. Resta loro di trovare i soldati per formare gli eserciti e scendere in campo con qualche possibilità di successo.