“Teso’, che tte prendi?”. Lei è tracagnotta e sorridente. Sfoggia inquietanti unghie quadrate metallizzate. Si sporge dal bancone d’acciaio e mi fotografa col suo sguardo fiero, su una faccia tonda, da romana purosangue. Sono le 08,30 di un qualsiasi giorno, in un qualsiasi bar del centro della Capitale.

“Boinciorno, Lei ddesidera?”. Alla stessa ora, in un qualsiasi bar di via della Libertà, a Palermo, un ossuto ragazzo bruno, con un naso importante e la fronte bassa e lucida, fa volteggiare le sue lunghe dita sul bancone di maiolica.

Il tintinnio delle tazze è lo stesso, l’odore di caffè e delizie alla crema, pure. Cambiano nomi e modi. Maritozzi contro briosce, cornetti contro iris. Torta della nonna contro torta Setteveli. Ginseng contro granita di gelsi. “Tu” contro “Lei”. Insomma, due universi paralleli. Dominati e dominatori. Siciliani e Romani. Timidi e sfacciati. Diversi nel dialetto e nell’approccio. Perché il Romano non dà del Lei. Il Romano non gira intorno. Salta il preambolo, dribbla i convenevoli. E se la ride. Fa il gentile, ma entra subito in confidenza. E chi s’è visto, s’è visto.

Ti guarda dritto in faccia, ti dà del “tu”. Non gli importa chi abbia davanti. Sua nonna o uno scolaro delle elementari, la regina Elisabetta o un serial killer con l’occhio iniettato di sangue. Non fa alcuna differenza. Non importa, perchè: “semo a Roma”. E’ gentile, ma ti chiama “teso’”. E ti costringe ad accettare questa sua generosa, immotivata e inaspettata attenzione. Il Romano, nei secoli dei secoli, è fedele alla semplicità di cui ha fatto il suo vessillo: “A me, che mme frega?”.

Già nell’antica Roma, i Romani danno del “tu” a tutti: amici, animali, soldati e imperatori. In seguito, cominciano a dare del “voi” a questi ultimi. Del resto, non c’è scelta, visto che i sovrani se ne vanno in giro a parlare di se stessi usando il “noi”, il plurale maiestatis. E, tranne qualche eccezione, non tutti, poi, sono bipolari.

In quel plurale, infatti, non si celano personalità multiple, ma la grande, incrollabile, fierezza che, allora come oggi, contraddistingue il Romano. Colui che discende, per vie traverse o meno, da grandi condottieri e conquistatori. Pure gladiatori. E calciatori.

Il Siciliano, invece, è ossequioso. Cordiale e gentile, ma sempre un po’ intimidito. Non osa superare il confine. Dà del Lei. Sempre. A tutte le ore. E a tulle le facce. Ti osserva, sottecchi, mentre bevi il caffellatte. La palpebra a mezz’asta, la testa appena reclinata. Non attacca bottone. Non fa domande. Non ci pensa neanche. “Una questione di rrispetto è”. Ognuno al suo posto. Lui lavora e tu consumi.

Perché il Siciliano, oltretutto, parla un dialetto che nessuno capisce. Anche se le fiction tratte dai libri di Andrea Camilleri, hanno sdoganato un linguaggio comprensibile a tutti, un po’ italianizzato.

In realtà, invece, per afferrare il senso dell’autentico dialetto, non c’è traduttore simultaneo che tenga. Ma quando il Siciliano decide di “toscaneggiare”, di parlare in italiano, diventa serissimo. E dialoga in modo quasi perfetto. Segnato da un accento cantilenante e inconfondibile, è vero, ma quasi perfetto.

Poi, magari, ogni tanto, confonde un paio di verbi transitivi e intransitivi. Oppure, per esprimere il futuro, usa il presente, manco fosse il present continuous inglese. Ma, almeno, si impegna, per cercare di raggiungere l’acme della inappuntabilità linguistica. E imposta persino la voce, le dà più contegno. Anche dietro al bancone di un bar. Pure di prima mattina.

Il Siciliano, in sostanza, sa bene come, per lui, parlare in dialetto con un estraneo, sia impossibile. E’ un lusso che non gli è concesso permettersi. Del resto, lui parla una vera e propria lingua. La più complicata del mondo. Perché, sappiatelo, il siciliano del Duemila è il risultato di secoli e secoli di stratificazioni: latina, greco-bizantina, araba e, se non fosse ancora sufficiente, pure spagnola.

Oltretutto, dopo l’anno Mille, ci si mettono pure quei biondi naturali dei Normanni, i quali portano in Sicilia una vera e propria rivoluzione, introducendo molte parole del Nord Europa. Così, la “caponata linguistica” è servita.

Il Siciliano, quindi, non ha scampo. Se azzarda una sola frase, se inanella due concetti in dialetto stretto, prova sulla pelle e dentro al cuore un senso di ineluttabile solitudine. Pari a quella della particella di sodio, nella pubblicità di una nota acqua minerale. E, quindi, che fa? Custodisce il prezioso e variegato tesoro linguistico tramandato da millenni, senza sciuparlo col primo venuto. E sta al suo posto. Tanto, abituato com’è a decine di dominazioni, è filosofo e sa bene come tutto passi. Ergo, perché mettersi a ciarlare in dialetto con un estraneo avventore? E, per di più, alle otto e mezza del mattino, cioè all’alba? “Pi ccarità!”.

Sembra, quindi, strano che il romanesco e il siciliano discendano entrambi dal latino parlato, ma le cose stanno in questo modo. I due dialetti hanno poi avuto una storia e un’evoluzione del tutto differenti. Il romanesco, ha una struttura molto simile all’italiano, per questo è più una “parlata” che un dialetto. La sua grammatica non è poi tanto diversa da quella italiana, fondata sul toscano.

Allora, è chiaro come, anche se vieni da Udine e ti trovi catapultato a Roma, tra le bancarelle del mercato di Testaccio, il sabato mattina, tu possa facilmente capire gran parte dei discorsi incrociati che sfrecciano sulla tua testa, da una parte all’altra. Perché il romano, non solo ama parlare, ma ama farlo a distanza.

Se, invece, da Aosta, da Roma, da Catanzaro o da Favara decidi di andare al mercato di Ballarò, stai pur certo che i venditori di sangunazzu, strattu e paitati vudduti, magari litigano tra loro in palermitano stretto, “ti sgangu i cuonna!”. Ma, poi, si girano verso di te, tirano un respiro, impostano la voce flautata e cominciano a toscaneggiare. Fanno le umane e le divine cose per parlarti in italiano. Perché “il foristiero rispettato va. Sempre”.

I Romani, dicevamo, sanno di essere compresi e ne approfittano. Ammettiamolo. Parlano sempre in romanesco, tanto tu capisci. E, se non capisci, “che me frega? Stai a Roma? Te devi romanizzà”. E, così, tu ti senti costantemente e perennemente dentro a un film con Alberto Sordi o Carlo Verdone. A loro piace tanto. Si divertono. “E te tevi da divertì pure tu”.

La verità è che i romani sono convinti che il romanesco sia La Lingua. Con la elle maiuscola. E quando dicono “Itallia”, “telecammera”, “borza” e “ssedia”, non li sfiora minimamente il dubbio che qualcosa non quadri.

“De dove ssei?” mi domanda la barista con la faccia tonda, mentre sto per pagare la mia mia colazione.
“Di Agrigento. Ma vivo a Roma da sedici anni”, rispondo io.

“Nun c’è gnente da fa’. L’accento nun se leva”, sentenzia.