Tra la Lega e l’ambizione, ormai sbandierata, di governare la Regione s’è messo in mezzo il solito “guastafeste”: Gianfranco Micciché. Il coordinatore regionale di Forza Italia ha smorzato sul nascere i voli pindarici di Salvini e ha chiarito che se proprio non dovesse essere Musumeci a concorrere per il bis – un’ipotesi che nessuno, a questo punto, trascura – Forza Italia è pronta a indicare un nome. Non il suo, evidentemente. Perché da oltre un anno, a chi glielo chiede, il presidente dell’Ars ha chiarito di non avere la voglia e le energie per guidare una Regione così farraginosa e irredimibile, bloccata dalla burocrazia: “Non è tempo e non mi riterrei più adeguato al ruolo”. Gli azzurri, però, vantano più di un credito nei confronti della coalizione: ad esempio, aver governato per quattro anni con due assessori e mezzo, a fronte del risultato delle urne che avevano indicato FI come il partito di maggioranza relativa (il mezzo è Falcone, mentre Armao va annoverato fra i fedelissimi di Berlusconi). Oppure di aver rinunciato, con spirito di sacrificio, alla casella più ambita: la Sanità. Lasciando l’incombenza, e le polemiche che ne sono conseguite anche sul fronte giudiziario, a Diventerà Bellissima.

Ma qui la questione è un’altra. S’intreccia più con il futuro, e coi rapporti con gli alleati. Miccichè non ha mai digerito anche solo l’idea che la Lega si impadronisse di palazzo d’Orleans. E ha sempre detto che la scelta del candidato avverrà a Palermo, non a Roma. Teorie che sbattono sul muro eretto l’altra sera da Salvini, e sulla proposta di proporre per lo scranno più alto Nino Minardo. Un ex forzista, che un paio d’anni fa, al momento del transito nel Carroccio, venne definito una sorta di “pontiere” tra le parti. E in effetti qualcosa è cambiato: dopo aver sputato veleno sulla politica anti-migranti dell’allora Ministro dell’Interno, e aver marciato sul molo di Catania in segno di protesta assieme alla Boldrini, Micciché è tornato a parlare con Salvini nel febbraio dell’anno scorso, in occasione del debutto del gruppo parlamentare della Lega all’Assemblea regionale. E per un pezzo del tragitto hanno marciato insieme, complice l’input di Berlusconi (che ha sempre parteggiato, almeno fino alla genesi del governo Draghi, per lo schema classico del centrodestra).

Ma restando a una ferma analisi dei fatti, in Sicilia la situazione è molto diversa che a Roma. E giusto qualche giorno fa, forse annusando l’aria, Micciché ha bocciato sonoramente l’ipotesi di un partito unico con il Carroccio: “Capisco che Forza Italia ha i voti quasi esclusivamente al Sud, e questo fa gola a Salvini – disse –. Dopo di che, dopo l’annessione, cosa otterrebbe? I parlamentari sono sempre quelli, passerebbero solo sotto una sigla diversa. Dico no: operazione pericolosa per tutti”. E ha aggiunto: “Quando si devono fare le leggi, da parte loro sembra che ci sia una certa riluttanza nel farsi carico degli interessi del Meridione”. E qui riemergono tutte le differenze del mondo, il vecchio scetticismo che per un periodo lo aveva convinto ad andare controcorrente. A sbattere le porte in faccia. A dire le cose papale papale. Ed è lo stesso sentimento, più o meno, che ha convinto Miccichè a schierarsi per il modello Draghi: unico, indissolubile, duraturo. Ma soprattutto efficiente, ancorché perfettibile (l’obbligo del Green Pass non l’ha convinto).

Il modello Draghi, che nelle sue enunciazioni teoriche presuppone un’alleanza fra europeisti e atlantisti, non si addice alla Lega. Ma a Forza Italia sì. Ne avrebbero parlato Micciché ed Enrico Letta durante l’ultima visita palermitana del segretario del Pd. E non è un mistero che ne parlino Miccichè e Cancelleri, prima rivali in tutto, per offrire alla Sicilia una prospettiva nuova. Questo dialogo presuppone la richiesta di nuovi modelli partitici, mentre – Arcore e Villa Certosa, in Sardegna – Berlusconi continua a balbettare con i suoi pensieri, complice la poca voglia e le poche energie. Un giorno vorrebbe convolare a nozze con Salvini in una federazione ristretta, o nel partito unico; quello dopo invita la Meloni per rassicurarla che tutto rimarrà come al solito. In realtà non sa bene cosa fare: il Cav. sembra in quella fase di incertezza politica che segue la fase del padre nobile, dove tutti gli hanno dato atto, col proprio comportamento responsabile, di aver evitato al Paese il ritorno alle urne. Adesso, però, è il tempo di decidere.

Decidere per il futuro della Sicilia, dato che a Roma manca ancora un’eternità. Nell’Isola, dove il mercato delle vacche è bollente – e la stessa Forza Italia avrebbe accolto uno come Sammartino col tappeto rosso e dal portone principale – tutti giocano a riposizionarsi più in alto. Ma “parlare adesso di quale sarà la coalizione con cui affronteremo le elezioni – ha ribadito Micciché – è come chiedere a un allenatore di calcio di annunciare la formazione un anno e mezzo prima della partita”. Impossibile. Viene male, un po’ illogico, ipotizzare che il grosso magma centrista, di cui fa parte – adesso – anche Italia Viva, trovi rifugio sotto l’ala (poco) rassicurante di Salvini. E persino di Musumeci, che come ribadito da Cuffaro, è un uomo di destra, oltre che un leader poco incline ai compromessi (politici). Ma è difficile anche per Forza Italia lavorare a un patto locale con Pd e Cinque Stelle se l’andamento della borsa, da Roma in su, segue altre oscillazioni. Nel calderone di queste ore c’è di tutto: l’idea brillante e malsana, secondo alcuni, di proporre un laboratorio (Ursula? Draghi? Giuditta?) che si potrebbe sfruttare alle prossime Politiche; o rimanere fermi, ancorati allo spirito di un centrodestra sempre più destrorso, dove per essere fedeli e leali si rischia di finire fagocitati.

Micciché, che è una mente politicamente sopraffina, si dimena fra queste due ipotesi e non chiude la porta a nessuno. Sa bene di essersi guadagnato sul campo i galloni del mediatore. Dell’equilibratore, se serve. Ma più probabilmente, coi suoi voti, è quello che potrebbe risultare decisivo. Che si arroga, assieme al suo partito, la facoltà di far vincere (come nel 2017) o di far perdere (come nel 2012). Il problema vero è che Forza Italia, in Sicilia, viaggia a un’altra velocità rispetto alla creatura di Tajani; ma non per questo riesce ad emanciparsi. C’è una zavorra impossibile da rimuovere. Il primo banco di prova, al di là della Regione, resta comunque Palermo, dove il gruppo azzurro, con un balzo felino, ha anticipato agli alleati le proprie ambizioni da prima donna: “Saremo noi a esprimere il candidato sindaco per il dopo Orlando”. Un tentativo coraggioso di smuovere le acque: vedremo se qualcuno abboccherà.