C’è una frase dell’antica tradizione marinara siciliana che racconta una immensa metafora del vivere sociale. La narravano i “Raìsi” (coloro che dirigevano la pesca nelle tonnare) ai bambini quando in Sicilia si praticava ancora l’antica mattanza. “Finiu comu un mistinu dintra la riti…”

L’esperta sapienza dei cacciatori delle tonnare sapeva bene che il mare consegna le sue verità, a volte dolorosamente tragiche. Il “mistinu” è qualcosa che non era previsto entrasse nella rete dei tonni. A volte è uno squalo, a volte è un delfino.

Pensiamo al delfino. Per gli umani è un mammifero sacro e non toccabile, se non si vuole sfidare Nettuno e le sfortune che quel Dio è in grado di infliggere. Nessuno può volere la morte di un delfino: non lo desiderano i tonni e neppure gli umani. Ma allorché la camera della morte – intessuta delle lunghe e intrecciate reti – si chiude, ecco allora che accade l’imprevedibile. Il delfino che, per amicizia, nuotava insieme ai tonni resta intrappolato. Più intelligente e dinamico dei suoi amici, il delfino tenta di divincolarsi con ampie volute e veloci pinnate. Quel pesce impazzito di paura rappresenta un pericolo per le reti e l’esito della pesca. Ma prima ancora che venga ucciso dai pescatori, per necessità, egli è ucciso dai colpi di coda dei suoi stessi amici. Il delfino è il primo a morire nella rete dei tonni, sebbene la sua morte non sia desiderata da nessuno.

Se, invece, si tratta di uno squalo occorre fare presto, perché quel predatore è in grado di rompere le reti e aiutare la fuga dei tonni.

A questa immensa metafora di antica saggezza marinara ho pensato rimeditando il caso Palamara. Chissà quanti delfini hanno nuotato insieme a lui nel mare delittuoso del “Sistema”. E quanti predatori, più grossi di lui, invece, sono riusciti a rompere le reti guadagnando il mare aperto…