A Maria Cristina Quiligotti, presidente della III sezione del Tar di Palermo, non sono bastati anni di studio, una laurea in Giurisprudenza con 110 e lode, e la vittoria di un concorso per Procuratore di Stato (prima in graduatoria), per piacere al presidente della Regione siciliana: Nello Musumeci l’ha definita “compiacente” nei confronti del governo Pd-Cinque Stelle, poiché il suo nome compare nel gruppo dei saggi della Regione Lazio che si occupano di semplificazione amministrativa. E la Regione Lazio è amministrata da Nicola Zingaretti, segretario nazionale del Partito Democratico. Incomprensibile secondo Musumeci, al quale non è andato giù che la Quiligotti, l’altra sera, abbia sospeso l’ordinanza con cui lo stesso governatore, in barba all’articolo 117 della Costituzione, vietava la sosta e il transito dei migranti sulle coste siciliane e, contestualmente, prevedeva lo sgombero di hotspot e centri d’accoglienza. Il governo Conte, credendo scavalcate le proprie competenze in materia, ha impugnato il provvedimento di fronte al Tar, che a sua volta ha deciso si applicare una “sospensiva” in attesa della Camera di Consiglio convocata per il 17 settembre. Apriti cielo.

Dopo aver dichiarato che la Regione non è stata nemmeno consultata per presentare le proprie difese e aver lasciato sbollire la rabbia per meno di ventiquattr’ore, Musumeci è passato al contrattacco. E oltre a dichiarare (continuamente e in tutte le salse: giornali, siti, social, tv) che non arretrerà di un passo rispetto alla propria iniziativa di salvaguardia della salute dei siciliani e dei migranti (“Sono persone anche loro”), ha puntato l’indice contro il magistrato. “Qualcuno dice, ma è una “malalingua”, che è stato consulente del presidente Zingaretti che è il capo del partito più importante al Governo”, ha detto Musumeci. E’ vero. Ma c’è dell’altro: scavando nel passato e nel curriculum della Quiligotti, si scopre che dal giugno ’98 al dicembre 2000 ha rivestito l’incarico di consulente giuridico al Ministero dell’Ambiente. In quell’arco temporale, da palazzo Chigi, sono transitati quattro governi: il Prodi I, con Willem Bordon ministro; il D’Alema I e II, e il secondo governo Amato, col ministro Edoardo Ronchi (dei Verdi). La Quiligotti, con spirito istituzionale, ha lavorato al loro fianco. Senza per questo arrotolarsi nella bandiera di un qualche partito.

E’ stata l’Associazione nazionale magistrati amministrativi a difendere la collega dalla valanga che Musumeci le ha rovesciato addosso. Per Fabio Mattei, presidente Anma, “attaccare personalmente un giudice per una decisione non condivisa, mettere in discussione la sua autonomia è grave, perché così si contesta alla base l’indipendenza stessa della giustizia. La dottoressa Quiligotti – continua il presidente Anma – è una servitrice dello Stato, ed è stata in passato consulente giuridica e tecnica in modo trasversale, anche del ministro della Lega Calderoli, per fare un solo esempio, come spesso succede ai magistrati che offrono la loro ‘scienza e conoscenza’ per il buon funzionamento della pubblica amministrazione”. La Quiligotti è stata consigliere giuridico, dal settembre 2009 all’aprile 2011, dell’unità per la semplificazione normativa – ne diventerà anche responsabile – che fungeva da supporto all’attività del Ministro per la Pubblica amministrazione: nella fattispecie Roberto Calderoli (governo Berlusconi).

Mettere in dubbio la terzietà di un giudice per un semplice ragionamento di pancia? Musumeci l’aveva già fatto a febbraio di quest’anno, due giorni dopo che cinque relatori della Corte dei Conti siciliana, fra cui l’ex assessore di Leoluca Orlando, Luciano Abbonato, contestarono il Documento di economia e finanza regionale durante un’audizione in commissione Bilancio. La Corte aveva bollato come “irrealistiche” le prospettive di crescita contenute nel Defr (per il triennio 2020-22) approvato dalla giunta nell’ottobre 2019. Musumeci, in un’intervista a ‘La Sicilia’ disse a caratteri cubitali che “mi rifiuto di esprimere valutazioni sulla Corte dei Conti” e “sono convinto che chi amministra debba essere al di sopra di ogni sospetto. Ma credo debba esserlo anche il magistrato che esamina l’operato dell’amministrazione”. Con una chiosa finale: “Ho saputo, ad esempio, che uno dei relatori del mio operato è un magistrato laico ex assessore di una giunta di centrosinistra nel comune di Palermo. Credo che in termini di opportunità qualche problema ci sia”.

Luciano Abbonato, ex assessore della giunta Orlando, a Palermo, nel 2016 lasciò l’esecutivo per entrare nella magistratura contabile. Lo stesso Abbonato, qualche mese dopo, era il dicembre 2019, pronunciò parole durissime durante il giudizio di parifica della Corte dei Conti. Lo stesso che aveva certificato un disavanzo monstre da parte della Regione nei confronti dello Stato (per oltre 2 miliardi): “La Regione non ha saputo nemmeno raggiungere gli obiettivi minimi che  si era prefissata – aveva spiegato durante la lettura del dispositivo della sentenza -. Il risultato d’amministrazione di dubbia attendibilità rappresenta ancora notevoli profili di opacità”. Anche in quel caso, apriti cielo. Musumeci, chiaramente memore dei precedenti, attese qualche mese e l’occasione giusta per scatenare la potenza di fuoco contro l’ex assessore, salvo arretrare dopo che il presidente della sezione di controllo della Corte dei Conti, Luciana Savagnone, gli fece notare che non era proprio il caso (“Si tratta di illazioni e affermazioni infamanti”).

Il presidente della Regione cercò di ricucire lo strappo parlando di un “equivoco”: “Nel dire che non intendo esprimere apprezzamenti sulla Corte, appariva chiaro che intendevo ribadire un concetto che mi è molto caro: le magistrature e le loro decisioni non si giudicano, ma si rispettano. Quanto al resto, penso sia mio diritto sostenere, come ho sostenuto, che esistono profili di opportunità indiscutibili di cui tutti, come la politica, dovrebbero tenere conto”.

Nel corso di questa legislatura, tuttavia, Musumeci ha provato in almeno un’occasione a mischiare le carte in tavola, a richiamare politica e magistratura nella stessa frase. Si discuteva di Finanziaria a palazzo dei Normanni, quando il deputato di Italia Viva, Luca Sammartino, chiese di utilizzare il voto segreto su un emendamento. Anche quella volta, apriti cielo: “Si vergogni lei e chi asseconda la sua richiesta – tuonò Musumeci dal proprio pulpito – Io abbandono l’aula, è un fatto etico al quale non posso assolutamente aderire. Mi auguro che di lei e di quelli come lei si occupino altri palazzi”. Ossia la magistratura, che sull’onorevole renziano, catanese come il presidente, sta indagando per corruzione elettorale. Un’invocazione fuori luogo, che anche il presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché, stigmatizzò in maniera decisa. Ora Musumeci c’è ricascato: dirà anche stavolta che è una semplice questione di opportunità? O farà leva sullo scandalo del giudice Palamara, usato da Salvini per giustificare le “malefatte” ai suoi danni, per dichiarare guerra alle (presunte) toghe rosse?