Lo diceva col tono di chi era appena sceso dal Monte Sinai: “Non avrai altro presidente al di fuori di me”. E aggiungeva che almeno quattro sondaggi dicevano che solo lui, Nello Musumeci, governatore uscente, sarebbe stato in grado di sbaragliare il 25 settembre qualunque concorrente. Profezie vacue, vuote, quasi farlocche. Perché, dopo una campagna elettorale affrettata e ansimante, la realtà ha dimostrato che un altro candidato c’era e che quel candidato, con il suo equilibrio e la sua moderazione, ha superato il quaranta per cento dei voti. Era Renato Schifani: ex presidente del Senato, un uomo delle istituzioni, un forzista della prima ora.

Alle geremiadi del Re Sole catanese – après moi le déluge, dopo di me il diluvio – si era unito il coro dei fedelissimi: da Ruggero Razza, imperatore della Sanità, a Manlio Messina, il Balilla dei Turismo; da Gaetano Armao, uomo dalle mille casacche, a Marco Intravaia, segretario tuttofare. Sostenevano, in pubblico e in privato, che l’azzardo di Gianfranco Miccichè – il commissario di Forza Italia che più di ogni altro si è opposto alla ricandidatura di Musumeci – avrebbe portato al disastro l’intero centrodestra e che il governo della Sicilia sarebbe inesorabilmente scivolato nelle mani della sinistra o, peggio, di un guitto barbaro e un po’ sbruffone come Cateno De Luca. Altra profezia vacua, vuota, decisamente farlocca. Micciché ha fatto il suo gioco e ha vinto: ha strappato Palazzo d’Orleans alla Confraternita catanese, si è liberato di quella spina nel fianco che rispondeva al nome di Gaetano Armao, e ha ripristinato l’agibilità di due assessorati – la Sanità e il Turismo – che Razza e il Balilla avevano trasformato in due feudi impenetrabili, in due privative dove era vietato l’accesso agli estranei. Poi il leader siciliano di Forza Italia si è democraticamente rimesso al giudizio degli elettori e gli elettori lo hanno premiato: il suo partito, anche se accerchiato da due populismi, quello di Giuseppe Conte e quello di Cateno De Luca, ha totalizzato in Sicilia oltre il 14 per cento, una cifra decisamente al di sopra della media nazionale. Merito suo, di Schifani e anche di Giorgio Mulè, il sottosegretario alla Difesa, candidato nel plurinominale della Camera, che ha contribuito non poco a smussare gli angoli, a ricompattare Forza Italia e a tenerla saldamente ancorata al disegno tracciato da Silvio Berlusconi.

Non può dirsi altrettanto, invece, dei due più acerrimi e biliosi nemici del commissario azzurro. Armao si è perso nella nebbia delle sue avventure: ha sempre tentato di spacciare l’idea che lui avesse chissà quale consenso elettorale ma quando si è candidato con il Terzo Polo di Calenda e Renzi non lo hanno votato né le lobby né le logge né i suoi amici più cari; e non si è scostato dallo zerovirgola. Razza ha invece rinunciato alla competizione diretta, ha lanciato nell’agone politico la moglie, Elena Pagana, deputata uscente, passata dal vaffa di Grillo all’eia eia alalà delle faccette nere, ma la scelta si è rivelata un tonfo, un salto nel vuoto.

La politica – annotava Talleyrand, una vecchia volpe di raffinata scuola francese – si giudica sempre dagli effetti. Perché gli effetti non hanno clemenza e non perdonano.