Credono tutti di aver vinto. In realtà sanno benissimo chi ha perso. Come al termine di ogni competizione elettorale, si fa di tutto per smorzare la delusione. Ma non sempre ci si riesce. L’affermazione della Lega – innegabile, dirompente quella di Matteo Salvini – coincide con la sconfitta della classe dirigente siciliana. Igor Gelarda, responsabile Enti Locali per il Carroccio a Palermo, è finito quarto nella sua lista. Ha pagato a caro prezzo la presenza delle donne, Annalisa Tardino e Francesca Donato, che lo hanno preceduto in termini di preferenze. L’altro scudiero di Salvini, e di riflesso del commissario del partito nell’Isola (Stefano Candiani) è Fabio Cantarella. Almeno lui si gode la mancata elezione di Angelo Attaguile, che gli era stato preferito alla compilazione delle liste. Il k.o. di Attaguile, nonostante l’aiutino di Francantonio Genovese, è netto e incontestabile: ventimila voti sono pochi, quasi nulla, per un decano della politica, del trasformismo e delle aule parlamentari. Eppure la Lega ha vinto: grazie al voto d’opinione, alle promesse e alla politica muscolare di Salvini, che nell’Isola ha fatto il botto con quasi 240 mila preferenze.

Il primo partito nell’Isola resta il Movimento 5 Stelle. Dove finalmente, al termine di vari tentativi andati a vuoto (non è stato eletto alla Camera, ha dovuto dimettersi nei suoi incarichi alla regione Lazio e al ministero dell’Istruzione), raggiunge il suo scopo Dino Giarrusso. Che non solo strappa il pass per Bruxelles, ma lo fa da primo della lista, trascinato dal suo smoking nero e dalle sue inchieste televisive. A scapito di Ignazio Corrao, che però mette insieme numeri da capogiro: oltre 115mila consensi. Trapani, la sua provincia, è quella in cui i grillini svettano più che altrove (al 37%). Perde – e anche questo è un dato inconfutabile – Luigi Di Maio, il capo politico del Movimento, che aveva imposto dall’alto, e dall’esterno, la candidatura della sarda Alessandra Todde, ceo di Olidata, come capolista. La decisione aveva scombussolato la base siciliana del M5S, che alle operazioni di ratifica della scelta del vice-premier, per poco non si ribellò (il nome della Todde è passato per appena 400 voti su Rousseau).

Il Partito Democratico ha salutato con soddisfazione la doppia elezione – Bartolo e Chinnici – e la crescita di consenso rispetto agli ultimi appuntamenti elettorali. Il 16,6% è un buon risultato rispetto al precario 11% dello scorso anno alle Politiche. L’esultanza del segretario regionale Davide Faraone è moderata, perché la super affermazione di Bartolo è di Bartolo e basta. Anche se a Faraone (e a Zingaretti) va dato atto di averlo messo in lista. Una lista chiaramente aperta verso l’esterno. Il medico di Lampedusa, infatti, è riuscito a raccogliere la metà dei voti del Pd in Sicilia, avvalendosi della collaborazione di gente che sta fuori dai classici recinti di partito. Citofonare, per informazioni, a Leoluca Orlando, primo cittadino di Palermo, che non si è mai visto in occasione del congresso regionale (ad esempio); o di Claudio Fava, deputato regionale dei Cento Passi, che ha dato il suo apporto – d’amicizia e di valori – alla scelta di campo del medico. Ha vinto Bartolo, ma anche la Chinnici, un’altra “papessa straniera” che con la base siciliana del Pd non ha mai avuto questo gran rapporto. Ha perso la Giuffrida, giunta quarta, che poteva contare sul sostegno del gruppo Zingaretti – da Cracolici a Lupo – e invece è rimasta delusa. Nota di merito per l’eterno Vladimiro Crisafulli, che nella sua Enna ha dato al Pd lo slancio di un tempo: 18,89%, alle spalle (soltanto) del Movimento 5 Stelle. A Enna città, il Pd ha superato addirittura il 22%. Crisafulli non è il miglior alleato di Faraone, così come il sindaco ennese Maurizio Di Pietro, che è del Pd e per il Pd ha fatto campagna elettorale, con Crisafulli non si prende granché. C’è anche il suo zampino.

Poi c’è il capitolo Forza Italia, dove ora come non mai appaiono chiari i rapporti di forza. Gianfranco Miccichè, che negli ultimi mesi ha perso per strada i “dissidenti” Pogliese e Catanoso (il fronte catanese), non ha perso invece smalto politico. Che gli ha permesso di chiudere alleanze fondamentali con Cateno De Luca da un lato – memorabile la prestazione di FI a Messina, a un passo dai Cinque Stelle, grazie alle 47 mila preferenze di Dafne Musolino – e Sicilia Futura dall’altra. E a nulla è valso il “disturbo” interno di Saverio Romano, che ha portato in dote agli azzurri – volente o nolente – qualcosa come 73 mila voti. Appare insignificante, invece, la “resistenza” di Gaetano Armao, che per la seconda volta in poche settimane ha provato lo sfregio a Micciché (ricordate il supporto alla Lega in quel di Gela?), finendo confinato, assieme al sardo Salvatore Cicu, al quinto posto della classifica. In zona retrocessione. Forza Italia al 17% è una vittoria di Micciché e della sua strategia. Che non esclude la presenza di Silvio Berlusconi. Il presidentissimo, nelle Isole, raggranella 90 mila voti che gli valgono il primato. Al coordinatore regionale, che ha seminato per strada i reduci dell’alfanismo e i sostenitori della Fiamma, non resta che fare i conti con Armao – sai che difficoltà – per affermare il suo progetto di centro moderato e allargato, sinonimo (fin qui) di successo. “Un segnale molto forte che nasce proprio dove Forza Italia ha saputo proporsi come argine alle derive populistiche e demagogiche di grillini e leghisti. – ha commentato Miccichè – Se questa linea fosse stata tenuta anche nel resto d’Italia, oggi il risultato nazionale di Forza Italia sarebbe stato diverso”

Infine c’è un altro sconfitto di lusso, su cui forse non ci si concentra abbastanza. Si tratta del governatore Nello Musumeci. Hai voglia a sommare e dire che il centrodestra unito è garanzia di successo. L’unico che Musumeci aveva sperato di tener fuori da Bruxelles era l’ex sindaco di Catania, Raffaele Stancanelli, che invece in Europa ci va eccome. Dopo aver abbandonato Diventerà Bellissima – da cui si è autosospeso – all’indomani della dichiarazione di “neutralità” che il partito di Musumeci fece al congresso di febbraio. La mozione Stancanelli, che voleva un’alleanza con la Meloni, fu bocciata sonoramente. E adesso non solo Stancanelli spicca il volo – spinto dall’aiutino di Pogliese e degli scissionisti di Forza Italia – ma anche il partito, che Musumeci aveva indicato costantemente attorno al 2%, dimostra di saper (e poter) crescere.