L’ultima foglia di fico dietro cui si rifugia il presidente della Regione per giustificare il proprio immobilismo è la scelta dei sottosegretari, a Roma. Una partita che va avanti da qualche giorno, e trascina con sé il balletto della giunta regionale. Dopo l’addio dilatato nel tempo di Edy Bandiera e Bernadette Grasso, per fare spazio a Scilla e Zambuto, è finita all’ordine del giorno un’altra sostituzione: quella dell’assessore ai Rifiuti, Alberto Pierobon. Per cosa, poi? L’obiettivo è risolvere due problemi in uno: da un lato l’imbarazzo sempre più pronunciato per l’assenza di una donna nell’esecutivo (il Tar, nei prossimi giorni, si pronuncerà su un ricorso presentato dal Pd); dall’altro per permettere ai Genovese di scalare l’Udc, o in alternativa, di offrire un segnale di vicinanza a Italia Viva, nominando un assessore vicino ai renziani (come, ad esempio, l’ex presidente di Sac, Daniela Baglieri). E’ a questo che s’è ridotto il governatore nel momento in cui la pandemia ha allentato la presa, consentendo alla Sicilia di rientrare in “zona gialla” fra le Regioni più virtuose.

Il giochino degli assessori permette di rimandare le questioni più serie, nell’attesa che si torni a parlare di colori e, di inaugurare, a breve, un’infinita sessione finanziaria. Un passaggio obbligatorio, dato che la scadenza dell’esercizio provvisorio – il 28 febbraio – s’avvicina. Ma l’elenco delle questioni lasciate volutamente in sospeso, a Palazzo d’Orleans, si allunga. Partendo, appunto, dalla sostituzione di Pierobon. Una richiesta prima avallata e poi respinta da parte dell’Udc, il partito dell’assessore, dopo aver scoperto i ricamini che ci sono dietro (altro che quote rose…); e rifiutata da alcune associazioni di categoria, fra cui Confindustria Cisambiente, che giudica positivo il lavoro di Pierobon per aver allontanato dalla Sicilia “lo spettro dell’emergenza rifiuti”. La tagliola che pende sulla testa del “tecnico” scelto da Cesa, ha convinto, inoltre, i membri del Comitato legalità e trasparenza a dimettersi in massa, così come quelli della commissione d’inchiesta sulle autorizzazioni a fare lo stesso. L’ipotesi di un cambio al vertice dell’assessorato, insomma, ha finito per paralizzare un settore intero; e, inoltre, non tiene conto del parere del Cga sul piano dei rifiuti che arriverà nelle prossime settimane.

Sarà un passaggio cruciale – sperano, nella maggioranza – per ridare alla materia ordine e disciplina dopo vent’anni di caos. Per allentare, finalmente, il business delle discariche private, e chiudere in maniera virtuosa il ciclo dei rifiuti (persino con gli inceneritori, se dovesse servire). Musumeci, che maschera la propria pavidità con l’utilizzo imperioso del linguaggio, però ha già messo le mani avanti, spiegando che “la politica dei rifiuti in Sicilia si chiama Nello Musumeci. Mi assumo io le responsabilità e decido io. Gli assessori attuano le mie decisioni”. Il messaggio degli assessori come meri esecutori materiali del presidente, volendo, giustifica l’immobilismo. Era già avvenuto per la scelta del nuovo responsabile dei Beni culturali, un ruolo ricoperto ad interim per un anno: tanto era trascorso dalla morte di Sebastiano Tusa alla nomina di Alberto Samonà.

Mentre la pratica Pierobon dovrebbe chiudersi in pochi giorni. O comunque a ridosso della formazione del sottogoverno di Mario Draghi, che somiglia più a un depistaggio. Musumeci spera che qualcuno dei suoi assessori possa traslocare a Roma per evitargli i traumi inevitabili di una scelta. Peccato che i nomi di Gaetano Armao e Roberto Lagalla, rispettivamente assessore all’Economia e all’Istruzione, non compaiano in nessun borsino delle ultime ore: non tra i sei-sette sottosegretari promessi a Forza Italia, il partito del primo; non tra le indicazioni dei centristi, che fanno riferimento al secondo. Zero. L’attesa si sta rivelando inutile o, meglio, funzionale al galleggiamento.

Un classico di questo presidente che, quando può, decide di non decidere. Azzoppando una volta la monnezza, la volta dopo il bilancio. Gli osservatori più attenti, ad esempio, si saranno resi conti che Musumeci non è mai solito intervenire sui temi economici. Lasciando ad Armao l’intero controllo delle operazioni (abbiamo visto a che prezzo). Al netto di insipide sfuriate a uso e consumo della stampa, la giunta non ha più deliberato sul rendiconto 2019, ossia lo strumento propedeutico alla Corte dei Conti per emettere il giudizio di parifica. E’ trascorso un mese da quando la magistratura contabile ha scoperto un buco da 300 milioni riferito ai “residui attivi” mai cancellati dai capitoli di spesa di alcuni dipartimenti, e poco meno da quando la Regione ha ritirato il documento in autotutela, promettendo correzioni rapide. Domenica, sul Giornale di Sicilia, è stato l’assessore alla Funzione pubblica, Marco Zambuto, ad ammettere che ci vorranno ancora una decina di giorni perché la versione finale del rendiconto sia approvata. Poi passeranno settimane prima che i magistrati contabili completino le verifiche. Questa stasi spazio-temporale non è un vizietto di forma, ma avrà refluenze sulla Finanziaria che l’Ars si appresta a discutere. Le coperture, al momento, sono scritte su sabbia. E’ inusuale, oltre che giuridicamente inopportuno, approvare un bilancio senza aver prima ottenuto la parifica della corte. Lo ha detto il deputato regionale del M5s, Luisi Sunseri, in una nota: “Musumeci costringe l’Ars a lavorare alla cieca. Una situazione inammissibile”.

Il governatore, da un po’ di tempo, ha lasciato il timone ad Armao. Preferisce dedicarsi alla tv. Alle conference call con la cabina di regia e il comitato tecnico-scientifico. Alle passerelle nelle corsie d’ospedale e nei cantieri. Alla fustigazione di usi e costumi dei siciliani (la colpa è sempre loro quando i contagi s’impennano). Alle rassicurazioni collettive – mai, però, a un’assunzione di responsabilità – di fronte alle proteste pacifiche di ristoratori e operatori della scuola. E fin qui ha assistito inerme alla mancata attuazione della Finanziaria di guerra – quella del 2020 – con le relative misure anti Covid, per quasi un miliardo e mezzo di euro. E’ toccato ad Armao istituire l’ennesima commissione interna per capire lo stato dell’arte e passare al vaglio l’operato dei burocrati.

Il presidente non ha preso una sola decisione in grado di cambiare le sorti delle ex province. Condannate da sette anni al degrado istituzionale da parte del suo predecessore: Rosario Crocetta. Ha fatto spallucce di fronte al vulnus istituzionale di città metropolitane e liberi consorzi, non ha promosso una sola azione in grado di ripristinare le funzioni in capo agli enti d’area vasta. L’unica vera legge esitata dall’Ars per ridare la voce al popolo, attraverso il voto, è stata cassata dalla Corte Costituzionale. Così il regime commissariale è stato prorogato, di volta in volta, senza mai giungere all’elezione (di secondo livello) degli organi democratici. In questo modo alcune prerogative delle ex province, coma l’edilizia scolastica e la manutenzione stradale, sono andate in frantumi. Mentre il personale, di fronte all’impossibilità dei singoli enti di chiudere i bilanci, è finito allo sbaraglio.

Nel calvario dell’ultimo anno e mezzo, in cui Musumeci ha sprecato metà delle energie a discutere di Covid e l’altra metà a ripudiare i dipendenti regionali per lo scarso impegno (garantendo, tuttavia, ricchi premi e una valutazione esemplare delle performance), il governatore non ha mai messo mano a una riforma della pubblica amministrazione che, secondo l’accordo Stato-Regione del 14 gennaio, è divenuta una prerogativa assoluta. Riforma, però, che non passa dal turnover, dato che fino al 2023 (l’indizio è seminato nella Finanziaria trasmessa all’Ars) non sarà consentito rimpiazzare il personale destinato alla pensione (alla Regione non si assume dal ’92 e questo è un problema enorme). Ma dalla “riorganizzazione e lo snellimento della struttura amministrativa della Regione, al fine di ottenere una riduzione significativa degli uffici di livello dirigenziale e, in misura proporzionale, delle dotazioni organiche del personale dirigenziale e del comparto, nonché dei contingenti di personale assegnati ad attività strumentali”; ma anche dal “rafforzamento della gestione unitaria dei servizi strumentali, attraverso la costituzione di uffici comuni”; dal “riordino degli uffici e organismi al fine di eliminare duplicazioni o sovrapposizioni di strutture o funzioni”; dal “contenimento della spesa del personale in servizio”.

Un buon accordo, ma non il migliore possibile, che Palazzo d’Orleans ha dovuto accettare (garantirà di spalmare il disavanzo da quasi due miliardi in dieci anni) e permetterà a Musumeci di concludere agevolmente la legislatura, restando fermo. Senza toccare i fili scoperti di una macchina da rottamare. Senza creare presupposti per la crescita, ma limitandosi a una gestione degli affari correnti che non risulti dannosa. La miglior condizione possibile per conservare se stessi e il potere. Diventerà bellissima, magari al prossimo giro.