Quando Giorgia Meloni ha composto il suo governo ha scelto, per le caselle che spettavano al suo partito, di nominare ministro chi aveva esperienza di governo (Crosetto, Fitto, Musumeci, Roccella) e di mettere in posti di sottogoverno i più giovani (Bignami, Delmastro, Gemmato, Montaruli). Da un lato la “generazione Atreju” avrebbe avuto il tempo di maturare, dall’altro la vecchia guardia avrebbe dato maggiori garanzie. Uno dei piloni della prima linea di Meloni era Adolfo Urso, messo nel delicato ministero delle Imprese anche perché, nei governi Berlusconi, è stato due volte a Palazzo Piacentini in veste di viceministro allo Sviluppo economico con delega al commercio estero: al Mise serviva una personalità che, avendo già frequentato i palazzi del potere, aveva sia la conoscenza dei dossier sia la capacità di affrontarli. Urso, che nella scorsa legislatura è stato presidente del Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, sembrava il profilo più adatto: un tipo che, con discrezione, risolve i problemi anziché crearli. E invece, è andata tutta al contrario.

Travolto da un’ansia da prestazione e di visibilità, è l’esponente di governo che ha rilasciato più interviste di tutti i ministri, ma non singolarmente: di tutti messi insieme. Le priorità del ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit, così ha battezzato il vecchio Mise) non le ha tanto individuate nei problemi strutturali e storici del paese, ma nell’estemporaneità e nella contingenza. Così più che del Made in Italy, Urso è diventato il ministro della Rassegna stampa. Sia perché fa di tutto per entrare nelle rassegne con interviste e dichiarazioni su qualunque argomento, sia perché la sua agenda di governo è stata dettata dai titoli dei giornali: dai taxi al caro voli, dal caro benzina al carrello della spesa, ogni prima pagina allarmistica è diventata un provvedimento del ministro.

Eppure aveva cominciato bene, risolvendo una grave crisi industriale lasciata in eredità dal governo Draghi come quella di Priolo. L’Isab, la principale raffineria del paese, era entrata in difficoltà dopo l’invasione russa dell’Ucraina perché, essendo di proprietà della russa Lukoil, si è improvvisamente vista tagliare il credito dalle banche che temevano sanzioni secondarie. E così, paradossalmente, l’Isab è stata costretta ad abbandonare la diversificazione dei suoi fornitori per importare solo greggio dalla Russia, l’unico fornitore possibile rimasto. L’ulteriore paradosso, però, era che in vista dell’embargo europeo sul petrolio russo a fine 2022, l’Isab correva il serio rischio di fermarsi per assenza di forniture, con conseguenze devastanti per l’economia della Sicilia e del paese. Con poco tempo a disposizione, il governo fece un decreto, ispirato a un’analoga norma della Germania, che ha introdotto l’amministrazione fiduciaria di industrie strategiche per assicurare la sicurezza degli approvvigionamenti e la continuità produttiva. Ma la norma non ha avuto bisogno di diventare operativa, visto che la pistola sul tavolo messa da Urso ha spinto la Lukoil a evitare il commissariamento, facendo funzionare la raffineria, e a trovare un compratore (i ciprioti di Goi Energy).

Quell’Urso lì, che senza rilasciare dichiarazioni risolve un problema, sparisce improvvisamente. Negli stessi giorni compare l’Urso che abbiamo visto finora: il ministro che produce problemi a mezzo stampa. Siamo a gennaio 2023. Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno, con la prima legge di Bilancio, fatto una scelta tanto difficile quanto necessaria: prima ridurre e poi abolire (ovvero non rinnovare) lo sconto sulle accise introdotto dal governo Draghi. Si tratta di un’agevolazione molto costosa, circa 1 miliardo al mese, e generalizzata che, in un contesto di prezzi dell’energia in calo e di ristrettezze di bilancio, non può essere prorogata. Sui giornali e in tv, però, cominciano a comparire articoli e servizi sulla benzina che supera i 2 euro al litro. Per placare la polemica e allontanarla dalla scelta del governo sulle accise, Urso si fa promotore di un decreto con una serie di iniziative contro la “speculazione”: obbligo di esposizione a ogni pompa di benzina di un cartello con il prezzo medio dei carburanti, “accisa mobile” nel caso in cui i prezzi salgano troppo e inasprimento delle multe ai distributori. Tutte le misure si riveleranno inutili o inutilizzate, ma il decreto segna la prima rottura del governo Meloni con una categoria che fa parte del suo elettorato. Continua su ilfoglio.it