Forse avrebbe dovuto rimanere qui, ad ascoltare la dura requisitoria del procuratore generale della Corte dei Conti, Pino Zingale: avrebbe avuto quantomeno contezza di che pasta è fatto Gaetano Armao, il suo consigliere di fiducia, l’avvocato d’affari al quale ha trasferito inopinatamente le competenze sulle questioni più delicate della Regione. Invece è volato a Roma per farsi fotografare accanto a Paolo Berlusconi e arginare – con un francobollino sui giornaletti locali – gli effetti collaterali dell’ultimo flop. Povero Schifani: non ne azzecca nemmeno una. Aveva sognato la scalata al vertice di Forza Italia, addirittura in contrapposizione ad Antonio Tajani, e si è ritrovato ai margini di un partito che non gli riconosce più alcuna autorevolezza e che non sopporta più né il suo dolce far nulla né i suoi rancori né la sua sottomissione ai gerarchi più spregiudicati di Fratelli di Italia. Qualcuno glielo dica: non basta un francobollino per cancellare un anno di fallimenti.

Solo Carolina Varchi – la Santa Teresa d’Avila del patriottismo meloniano – poteva credere che la nomina di Renato Schifani a presidente del Consiglio nazionale di Forza Italia fosse meritevole di congratulazioni. Tutti gli altri esponenti politici, anche quelli delle seconde e terze file, se ne sono guardati bene. Sanno che il Consiglio nazionale è una camera di compensazione inventata dal neo segretario Tajani per assegnare una pergamena di consolazione a tutti i concorrenti che, nella gara congressuale, non hanno conquistato una medaglia. Ma nella feroce aridità dei deserti ogni goccia d’acqua è capace di creare un miraggio e di innestare un’illusione. La pergamena di consolazione assegnata a Schifani è stata trasformata, manco a dirlo, in un altro francobollino utile per attutire i contraccolpi della disfatta romana: “La Sicilia che conta in Forza Italia: Schifani presidente del Consiglio nazionale”, ha titolato un sacrestano della benevolenza, tra i più sensibili agli umori e ai desideri del presidente della Regione. Ben sapendo – lo sanno pure le pietre – che il fantomatico Consiglio nazionale, semmai riuscirà a riunirsi, non avrà alcun peso né nelle determinazioni del partito né tantomeno nelle scelte del governo.

A Tajani basta e avanza il sostegno della famiglia Berlusconi: di Marina, di Pier Silvio e di tutta la squadra dei retequattristi – Del Debbio, Porro, Giordano, Sallusti – che con i loro talk-show formano una cintura di protezione e, all’un tempo, una macchina del consenso per tutti gli uomini dell’inner circle impegnati in politica. Non a caso il ruolo di vice segretario vicario è stato assegnato, dallo stesso Tajani, a Deborah Bergamini, per anni segretaria particolare dell’indimenticabile Cav. E non a caso in tutte le cronache del congresso andate in onda sulle reti Mediaset non si è vista una sola inquadratura dedicata a Schifani. Tutti i presidenti azzurri – dal calabrese Occhiuto al piemontese Cirio – hanno avuto il loro momento di celebrità. Tranne lui. Ignorato. I reverendissimi chierici e i salivosi sacrestani della benevolenza se ne facciano una ragione: la nomenclatura di Palazzo d’Orleans in Forza Italia non conta proprio nulla.