Non è la Pasqua di risurrezione che Nello Musumeci, fervente cattolico, avrebbe mai immaginato: trafitto dall’inchiesta di Trapani e dal malcostume di “spalmare un poco” i morti della sanità siciliana; abbandonato dal suo braccio destro, l’assessore alla Salute, costretto al passo indietro per il profondo disagio; accerchiato dai partiti della maggioranza, che hanno espresso solidarietà a Razza, ma due secondi dopo erano già pronti per archiviare una stagione di (mal)governo che – adesso sì – ha assunto i toni e i codici del disastro. In aggiunta a tutto questo, l’epilogo della Finanziaria: un testo vuoto, approvato dal parlamento, ma che si è rivelato un gioco al massacro, coi franchi tiratori protagonisti. Una fotografia segnante della legislatura, in cui nessuno risponde più a niente. E in cui c’è un uomo – solo – che fatica a tenere le redini. Musumeci, almeno sul fronte economico, proverà a mettere qualche pezza nei prossimi giorni, presentando un piano ristori da 250 milioni da erogare per via amministrativa alle imprese. Dopo una ricognizione delle somme giuridicamente non vincolate e il via libera di Roma, che dovrà acconsentire alla riprogrammazione delle risorse (anche in questo caso, come l’anno scorso, extraregionali). Basterà a salvare la faccia? La risposta è no.

Sulla testa di Musumeci, in pochi giorni, si sono accumulati troppi nuvoloni neri. E resta poco tempo – un anno e mezzo da qui alle Regionali – per diradarli. Lo scandalo della sanità, che ha portato all’arresto di tre dirigenti (fra cui Maria Letizia Di Liberti) e alle dimissioni di Razza, è il punto più basso di questa legislatura e ha costretto il governatore ad assumere l’interim alla Salute. Con la pandemia in corso di svolgimento, e una campagna vaccinale che non ingrana, coinvolgere i partiti nella scelta del nuovo assessore si sarebbe rivelato un azzardo. Il governatore, che al momento si guarda bene dall’imporre un nome senza il coinvolgimento degli alleati (in pole position c’è Gino Ioppolo, sindaco uscente di Caltagirone), ha deciso per la soluzione meno traumatica: occuparsene di persona. La “supplenza” potrebbe durare qualche mese, almeno fin quando la curva epidemiologica sarà tornata sotto controllo e una buona fetta di siciliani non si sarà immunizzato. Ma anche questa decisione comporta dei rischi: cioè l’accentramento di potere nelle mani di una sola persona. Poco importa che sia il presidente della Regione.

In questi anni a palazzo d’Orleans, Musumeci ha sempre dato le carte, mettendo in secondo piano l’interesse dei partiti. Ad esempio nella scelta dell’assessore ai Beni culturali, maturata a un anno di distanza dalla tragedia che ha colpito Sebastiano Tusa (e dopo un altro interim). Di fronte all’insistenza della Lega per un rimescolamento delle deleghe – il Carroccio teneva all’Agricoltura – il Colonnello Nello ha mostrato il suo decisionismo imperante: così è, se vi pare. Anche Forza Italia ha dovuto faticare qualche mese per ottenere la sostituzione dei propri assessori (e ha dovuto desistere sui nomi di Armao e Falcone, ritenuti intoccabili). Mentre l’Udc ha dovuto soccombere di fronte alla scelta di licenziare Pierobon, e consegnare i Rifiuti alla Baglieri, gradita ai renziani di Italia Viva. La capogruppo Eleonora Lo Curto tiene ancora il broncio. Mesi addietro, anche Saverio Romano e il suo Cantiere Popolare si erano dimostrati “allergici” rispetto allo scarso coinvolgimento dei partiti di maggioranza nelle decisioni assunte dal governo. Problematica che si è un po’ rarefatta di fronte all’emergenza Covid, che ha imposto decisioni guidate dall’alto. Alcune di esse, come il piano sul Recovery Fund allestito nelle stanze del governo, non ha riscosso però molto successo.

Un’altra critica, sollevato da Gianfranco Miccichè, è stata la “catanesizzazione” dell’esecutivo. Al di là dei rappresentanti in giunta (da Manlio Messina a Ruggero Razza, passando per Marco Falcone e Antonio Scavone), molti ruoli chiave e incarichi di prestigio – dal presidente dell’Irfis (Giacomo Gargano) al direttore di Riscossione Sicilia (Vito Branca) – sono stati occupati da fedelissimi di Musumeci. “Il governo è sempre più Catania-centrico – denunciava Miccichè in un’intervista del novembre scorso – e ogni giorno c’è un fatto nuovo a testimoniarlo. All’Irfis fanno una commissione d’esami per un concorso, e ci mettono tre catanesi. Alla Sinfonica comanda un catanese… Come se i migliori fossero solo a Catania. Ma in realtà i migliori sono ovunque. Questo meccanismo ci sta creando dei problemi. Dai l’impressione che non è la qualità a guidare la tua azione di governo, ma le amicizie. So che non è così, ma bisogna uscire da questo errore. Chiedete ai palermitani se Musumeci potrà essere di nuovo il candidato alla presidenza…”.

Ma al di là dei campanili, il rapporto con gli alleati di centrodestra, in questi mesi, ha risentito col doppiogiochismo di Diventerà Bellissima. Che l’assessore Razza, da vero demiurgo del movimento, avrebbe voluto concedere all’abbraccio di Matteo Salvini, ma che lo stesso Musumeci, dopo aver percepito il brusio della base, ha tenuto a bada. Fino all’altro ieri, in pratica. Quando la direzione del partito ha chiesto che “una federazione”, non importa quale, debba concretizzarsi. Ma fuori dalla porta, essenzialmente, manca la fila. La Lega ha già stretto un accordo con gli Autonomisti di Lombardo, che non prevede altre annessioni. Fratelli d’Italia? Manco per idea. Stancanelli & soci sono ancora scottati per il rifiuto plateale di due anni fa, quando la mozione dell’ex sindaco di Catania fu respinta con perdite dal congresso. Forza Italia non ha mai prestato il fianco a un simile giochino, se non a ridosso delle campagne elettorali (quando ha accolto alcuni ‘esterni’, come Romano e il sindaco di Messina, Cateno De Luca, alle ultime Europee).

Al partito di Musumeci, che nel frattempo ha provato a scalare senza successo l’Udc (con i Genovese), non restano molte alternative. Tra queste, l’isolazionismo. Restare senza sponsor, però, significherebbe dover rinunciare a una seconda candidatura. Ipotesi che prende corpo in queste ore. I nemici interni sono tanti e assetati di sangue: in primis De Luca, che ha preso spunto dalle vicende trapanesi per evocare alcune battaglie personali, risalenti a poche settimane fa, condotte nel silenzio degli interlocutori (Razza e Musumeci, appunto) ma nel frastuono dei social. Scateno non vede l’ora di sbarazzarsene e di correre – lui – per la poltrona del palazzo più esclusivo. Il feeling con Salvini e l’ambizione personale sono entrambi arcinoti.

All’interno del centrodestra, in generale, sono convinti che l’inchiesta di Trapani rappresenti una macchia indelebile sul percorso di Musumeci, oltre che un’onta insopportabile. Fra l’altro il procuratore aggiunto Agnello, a mezzo stampa, ha preannunciato clamorose novità: “Dai telefonini e dai computer sequestrati verrà fuori altro, ma tanto altro ancora. Dai primi WhatsApp che abbiamo visto c’è parecchio materiale”, ha detto. Sembra una minaccia. In attesa di eventuali risvolti sul piano giudiziario, Musumeci non potrà sfoderare grosse armi di difesa sotto il profilo politico e amministrativo, segnato di per sé da alcuni fallimenti: gli schiaffi della Corte dei Conti ai bilanci di Armao; l’inattuazione della “Finanziaria di guerra” del 2020; l’approvazione (rassegnata) di questa Finanziaria, che ha lasciato fuori i ristori per le imprese e le mance per i deputati. Scatenando una guerra fra bande che i continui ricorsi al ‘voto segreto’ hanno palesato nella loro infinita gravità.

Sono tante, troppe cose a non aver funzionato. Tante e tali da mettere a repentaglio un vantaggio in doppia cifra sul “campo largo” del centrosinistra, che in queste ore sta sfibrando il governatore con continue richieste: l’ultima è stata inoltrata a Roma dalla direzione del Partito Democratico, in cui si chiede al governo nazionale di rimuoverlo dall’incarico di commissario per l’emergenza Covid. “La credibilità della Regione è sottozero – ha riferito il segretario regionale, Anthony Barbagallo -. E di tutto questo sfascio l’unico responsabile, politicamente, è Nello Musumeci che ha ridotto la Regione ad una sua corte personale”. Che, purtroppo per il governatore, non è mai stata in vena di miracoli.