Qui non si tratta – non soltanto – di una questione di merito: cioè se è giusto votare adesso, farlo più avanti, o non farlo affatto; se è preferibile la gestione commissariale di un ente (ormai) inutile, o è necessario il ritorno alla democrazia e alle funzioni (umiliate) delle ex province. Ma di metodo. Con una proposta trasversale depositata all’Ars, alcuni parlamentari siciliani hanno chiesto la proroga della tornata elettorale dei Liberi Consorzi e delle Città metropolitane, che giusto qualche giorno fa la Regione aveva fissato al 22 gennaio, dopo dieci anni di vulnus. Nella proposta di legge di cui sono firmatari esponenti del Partito Democratico (il segretario Barbagallo), della Lega (l’on. Sammartino) ma anche di Forza Italia e degli Autonomisti, appare chiaro il tentativo di non sacrificare le grandi città – Palermo, Catania e Messina – i cui sindaci “potrebbero cessare il loro mandato per ragioni diverse”. A Palermo si vota in primavera, mentre resta incerto il destino delle altre due.

In pratica la decisione di far slittare il voto si lega indissolubilmente alle vicende giudiziarie di Salvo Pogliese, che attende di conoscere dalla Corte costituzionale la sentenza sul ricorso contro la sospensione dalla carica per effetto della Legge Severino (in seguito alla condanna in primo grado nel processo relativo alle ‘spese pazze’ all’Ars); e sulla decisione di Cateno De Luca di dimettersi da palazzo Zanca, spalancando anche a Messina le porte per il voto in primavera. Pure Catania si potrebbe rivotare a maggio se Pogliese annunciasse le proprie dimissioni (cosa che esclude) a seguito del verdetto dei magistrati. Avrebbe poco senso – questo è vero – riempire i consigli metropolitani con i consiglieri dell’una o dell’altra maggioranza e/o minoranza in attesa del rinnovo delle cariche. Ma a questo Musumeci e la Regione non avevano pensato? O era così assillante l’idea di ripristinare la democrazia da far passare tutto il resto in secondo piano?

D’altronde, nelle ex province, si contano 3 o 4 rinvii negli ultimi due anni. Tutti stabiliti dall’Ars. Sia per la presenza contestuale di alcune città al voto (come avvenne nel 2019 per Enna e Agrigento, impegnate nel rinnovo del sindaco e del Consiglio comunale) sia per il Covid, che ha reso improponibile (o sconsigliabile) qualsiasi adunanza pubblica, sebbene di dimensioni ristrette. Non sfugga che il rinnovo, anzi la restaurazione delle istituzioni provinciali, è un affare interno, a cui sono delegati sindaci e consiglieri comunali. Trattasi di elezioni di secondo livello, fuori dal controllo popolare. Appannaggio della politica. Questo secondo aspetto ha fornito un alibi ai deputati contrari alle “urne”. E al loro altruismo. Sullo sfondo, infatti, compaiono numerose proposte di legge. Una di esse, fra l’altro, porta la firma di Diventerà Bellissima, il movimento del presidente Musumeci. Lo stesso Musumeci che aveva avallato a più riprese il ritorno alle elezioni “indirette”, scongiurando il proseguo della stagione dei commissari.

“Il nostro gruppo – aveva detto qualche giorno fa Giusy Savarino, portavoce di Db – è firmatario di un disegno di legge voto che vuole abbandonare l’elezione di secondo grado e restituire il potere di scelta ai cittadini. Nessuno dimentica di come nel recente passato la sinistra (con Crocetta, ndr) abbia svilito in diretta tv in una nota trasmissione televisiva condotta da Giletti, l’istituzione provinciale adducendo frasi fatte più che serie motivazioni e buon senso, creando solo caos. Noi vogliamo restituire dignità alle Province. Vogliamo che Roma ci permetta di ripristinare il voto diretto” – per inciso: le precedenti proposte di ritorno alla normalità sono state cassate dallo Stato – “perché siamo convinti che sia possibile tagliare i costi della politica senza per questo privare i cittadini della legittima rappresentanza democratica”. La politica siciliana, con tutte le buone intenzioni del caso, potrebbe riaprire un vecchio contenzioso con palazzo Chigi, che per effetto della Legge Delrio non ha mai concesso alla Regione di poter riorganizzare autonomamente gli enti intermedi. Mai. Perché dovrebbe farlo adesso? Per aggiungere costi su costi? Suonerebbe come un “privilegio” immeritato (nell’era del populismo certe cose si pagano).

La Sicilia, che si molte questioni si mostra arrembante (un esempio su tutti è la trattativa di Armao al Mef per il riconoscimento di alcune attuazioni statutarie), con questo atteggiamento non fa altro che alimentare rinvii su rinvii. Il persistere dei commissari, oltre che generare costi inutili, si ripercuote sulla funzionalità (ormai nulle) di Liberi Consorzi e Città Metropolitane. Che non offrono servizi adeguati alle esigenze della Sicilia – Musumeci più volte si è appellato all’assenza di enti intermedi per la manutenzione delle strade interne – e necessitano di ‘ricapitalizzazioni’ imponenti per poter chiudere i bilanci, pagare gli stipendi ai dipendenti, e rimanere in vita. Un gioco a perdere.

Il tentativo “calcolatore” dei deputati dell’Ars, che facilmente troverà il sostegno dell’aula (per gli ultimi rinvii è sempre accaduto) rientra in questo quadro. Testimonia la scarsa credibilità della politica; il difetto di comunicazione fra un palazzo e l’altro (all’interno della maggioranza, evidentemente, non ci si parla); lo smottamento della maggioranza di governo; il tentativo di accaparrarsi qualche poltrona in più. Trincerarsi dietro l’uscita di scena di Orlando o di De Luca è un modo per non uscirne con le ossa rotte: d’altronde, chi si assumerebbe il rischio di eleggere un organo “sfalsato” rispetto alla durata del mandato dei sindaci? O in totale spregio dei futuri equilibri all’interno dei civici consessi? Ecco, sta qui il nodo. Tante cose giuste, messe insieme, ne fanno una sbagliata. E alimentano l’arte del rinvio, in cui alla Regione hanno conseguito master e dottorati.

Pensate ai rifiuti, agli avanzi e ai disavanzi, alle riforme mancate, alla stabilizzazione degli Asu, ai contratti della pubblica amministrazione, alle autostrade rattoppate, alla liquidazione degli enti in dismissione (alcune procedure resistono da oltre vent’anni), alla riduzione degli sprechi e delle partecipate (leggasi carrozzoni). Agli accordi finanziari con Roma, in discussione dal 2018. Mille cose rimaste lì, nel limbo. Forse Musumeci ha ragione: gli servirebbero altri cinque anni a palazzo d’Orleans. E non è detto che bastino.