Musumeci aveva terminato da poco la sua conferenza stampa, consegnando il proprio destino nelle mani della Meloni: “Se a Roma non mi vogliono, tolgo il disturbo”, è la sintesi di una ragionamento – molto più simile a una pippa mentale – durato una ventina di minuti. Proprio in quegli istanti, però, Matteo Salvini ribadiva a Telelombardia che “della Sicilia decideranno i siciliani. Tanti si aspettano qualcosa di nuovo, di concreto e che comprenda tutti. L’importante è che ci sia il centrodestra unito”. La situazione, quindi, è la seguente: Musumeci che affida le sue sorti e quelle della Sicilia a un tavolo nazionale tra partiti; e Salvini, uno dei big tirati in causa, che vorrebbe risolvere la pratica a Palermo.

Tra i leader regionali di partito, in effetti, il governatore sa bene di non poterla spuntare. Così ha deciso di spostare la partita altrove. In campo neutro. Dove le decisioni verranno assunte non soltanto sulla base di simpatie e antipatie, di capacità o incapacità. Ma di pesi e contrappesi che coinvolgono altri volti e altri equilibri: ad esempio, si vocifera che se Fratelli d’Italia fosse pugnalata sulla Sicilia, potrebbe vendicarsi in Lombardia, dove Attilio Fontana – in quota Lega – attende il sigillo sulla propria ricandidatura (nel 2023). Sia Meloni che Salvini, però, appaiono allineati su almeno un aspetto: l’unità della coalizione è più importante di tutto il resto e va salvaguardata fino alle Politiche. Lo stesso messaggio che Musumeci, ieri, ha lanciato da palazzo d’Orleans.

Che sia un presidente sull’orlo della disperazione, però, lo conferma il corteggiamento spietato allo stato maggiore di Fratelli d’Italia; l’ode innamorata nei confronti della Meloni, “che ringrazio per la tenacia, la perseveranza e la passione con cui ha difeso il diritto alla mia ricandidatura”; la precisazione che lui, assieme a sette deputati regionali e un assessore (Razza), ha deciso di confluire nel partito dei patrioti, del quale si considera parte integrante, e non più federato. Questo amore ritrovato, frutto di mero calcolo, è l’unica arma (spuntata) che gli rimane per fare in modo che qualcuno di più grande e carismatico possa sposare la sua causa. Altrove, non a Palermo. E’ un messaggino recapitato a Giorgia affinché se ne interessi e provi – nonostante la delusione delle ultime Amministrative e alcune mosse non concordate (come la nomina dell’assessore Aricò) – a “recuperarlo” e riaccendere negli alleati il fervore e il senso d’appartenenza di cinque anni fa, sancito dal patto dell’arancino.

Ma in questo disegno Salvini e Berlusconi appaiono, ormai, molto più che defilati. Specie il primo, che non ha mai digerito il voltafaccia di un paio di estati fa, quando offrì a Musumeci la scialuppa della federazione con la Lega, e ottenne un due di picche come risposta. Diversa la questione Berlusconi, che oggi non esercita più il pieno controllo di Forza Italia, ma mantiene intatto il potere di delega. Licia Ronzulli, la sua ambasciatrice a Palermo, si è convinta poco per volta della bontà del progetto di Gianfranco Micciché, accantonando le ragioni dei ‘ribelli’ che avevano provato a sovvertire la leadership dall’interno. Così l’unico appiglio del governatore, sulla strada per Roma, resta Marcello Dell’Utri.

I due si sono incontrati nei mesi scorsi all’Hotel delle Palme, a Palermo, per mettere a punto il patto della biblioteca: Dell’Utri si è detto pronto a donare alla Regione la sua immensa collezione libraria, in cambio di un’area di prestigio in cui esporre (la Valle dei Templi). La discussione è scivolata sui temi di politica, e ora Musumeci spera che Dell’Utri possa sconfiggere nel cuore di Silvio le pretese di Miccichè. E sfruttare il suo ascendente sul Cav. per sovvertire uno stato di cose che, di certo, non lo favorisce. Dentro Forza Italia, quella ufficiale, monta il disappunto per le ultime uscite del governatore. Compresa quella di ieri. “Da Nello Musumeci arriva l’ennesima prova di pochezza, arroganza e cecità. Chi semina vento raccoglie tempesta”, sono state le parole della senatrice Urania Papatheu. Mentre lo stesso Micciché, impegnato a Termini nell’anniversario del distretto Meccatronica, ha rivendicato i propri meriti: “Se Musumeci dice di non volersi ricandidare è perché il maggiore partito della coalizione, cioè Forza Italia, gli ha dato il benservito”.

Non ci sono margini per tornare indietro. O per riprendere a dialogare. Musumeci è libero di non credere alle motivazioni dei suoi alleati, che gli imputano un’autoreferenzialità esasperata. Ma affidarsi ai giochini romani di palazzo – per uno che non ha mai avuto la minima considerazione dei partiti, e che non ha voglia di svendere la propria terra nemmeno per un posto al parlamento nazionale – somiglia davvero all’ultima spiaggia.