E’ come se i toni concilianti di Matteo Salvini, ieri a Palermo, nascondessero un’ambizione più profonda di “scegliere un candidato sindaco entro l’autunno”. E’ come se la lingua, durante la conferenza stampa organizzata all’Ars, tenesse a freno le parole, per evitare nuovi squarci dopo il pessimo esempio fornito a Roma e Milano: quello di un centrodestra litigioso, che ora grazie a Berlusconi sta provando a ricomporsi. La ferita è ancora troppo fresca per aizzare gli animi, come accaduto un mese fa con Musumeci, “minacciato” dall’avanzata del Carroccio fin sullo scranno più alto: così l’imposizione si trasforma in dialogo, le idee rimangono composte, i buoni propositi si sprecano a tal punto da divenire banali. Il “centrodestra unito” è un concetto che non esiste: tanto più in Sicilia, dove persino a Caltagirone – feudo del governatore – si è riusciti a perdere pur correndo tutti insieme. Salvini misura le sillabe, ostenta aperture: ma l’Isola, in fondo, rappresenta l’occasione più ghiotta per ripartire. Per piazzare un ruggito. E’ una sorta di ultima spiaggia.

Il declino dura da un po’: dalle elezioni Regionali di gennaio 2020, in Emilia, con la Borgonzoni. La vittoria in Calabria – recentissima – del forzista Occhiuto, non riscatta le delusioni di Campania e Puglia, dove il Carroccio aveva ceduto le candidature più importanti agli alleati (Caldoro e Fitto: entrambi perdenti). La Sicilia è il prossimo treno per provare a conquistare una Regione nel Mezzogiorno. Quella più a Sud governata dal Carroccio è l’Umbria di Donatella Tesei, conquistata durante il picco dei consensi a novembre ’19. Sembra passata una vita. Lo spazio di una pandemia. Salvini, nei prossimi mesi, sarà a Palermo sempre più spesso a causa di un processo che lo tortura: Open Arms è una scocciatura in piena regola, che da un lato gli permetterà di recitare un altro po’ la parte del ministro perseguitato per aver fatto l’interesse degli italiani; e, dall’altro, di preparare il terreno in vista del doppio appuntamento elettorale fra la primavera e l’autunno del prossimo anno.

La partita di Palermo non va sottovalutata. Dopo aver ceduto al centrosinistra le prime quattro città d’Italia, dove si è appena votato, il Carroccio non ha alcuna voglia di perdere la quinta. Prima dell’addio della consigliera Cancilia, la Lega era riuscita a “infestare” Sala delle Lapidi: ci sono ancora quattro consiglieri. Una base (comunque) solida per poter affrontare da protagonisti la “trattativa” sul candidato che verrà. Vincenzo Figuccia, commissario provinciale del partito, avrà voce in capitolo. Qualche giorno fa si è scagliato contro il veto di Gianfranco Micciché alla proposta di puntare Francesco Scoma, ex forzista da poco transitato nel Carroccio: “Voglio ricordare a me stesso e al presidente dell’Assemblea che chi riveste certi ruoli istituzionali, dovrebbe avere rispetto di tutti i partiti dell’arco costituzionale e che qualsiasi candidato a sindaco sarà il frutto di un tavolo di confronto sul piano cittadino, provinciale, regionale e nazionale che non potrà che coinvolgere tutti i partiti del centrodestra. Se Miccichè, nel ruolo di coordinatore regionale di Forza Italia, vuole entrare nel dibattito politico, si dimetta da presidente dell’Ars”. Figuccia picchia duro, non ha voglia di fare sconti sul nome. Salvini ha detto che un’idea ce l’ha, ma la nuova versione serafica gli impedisce di parlarne. Possibile che la trattativa si riduca a un compromesso. Si deciderà tutto a tavolino.

Il Capitano non forza la mano neppure su Orlando. Si limita a dire quello che pensa da sempre, e che i referenti sul territorio gli suggeriscono: “Palermo non merita un’Amministrazione inadeguata come l’attuale”. Si reca al cimitero dei Rotoli, dove osserva interdetto le bare a deposito e la sua presenza – è un caso? – induce il sindaco a firmare un’ordinanza per la realizzazione di 424 loculi temporanei. Una soluzione di Serie B: “Porterò la questione sul tavolo del governo, ma sui morti non si fa propaganda”, dichiara con garbo l’ex vicepremier, accompagnato durante la visita di cortesia dall’assessore ai Cimiteri, Toni Sala.

Poi torna in città, per affrontare i nodi della politica. Bisogna muovere le pedine in maniera oculata per non destare il sospetto che i giochi siano già fatti, e che tutto si ridurrà a una pretesa. E’ possibile che la Lega a Palermo “ceda” la candidatura, ma è più difficile che alla Regione si limiti a un ruolo da spettatore. In quel caso il nome verrà valutato in compagnia di Meloni e Berlusconi, non senza aver coinvolto i dirigenti locali. Purché si ritrovi la trazione di sempre, senza aggiunte – in Sicilia si lavora chiaramente a un isolamento degli estremi – che potrebbero far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Rispetto alla cena fra Micciché e Renzi, Salvini si limita a dire che “non credo che Renzi voglia entrare nel centrodestra e non farò nulla per convincerlo”. A Musumeci, invece, fa pervenire un messaggio di lealtà: “E’ il nostro presidente. Ha la nostra stima e la nostra fiducia”. Le pretese sono archiviate, la tregua è servita. D’altronde, per palazzo d’Orleans, c’è più tempo per riflettere.

Tempo che servirà alla Lega per proseguire il processo di radicamento sul territorio, che il risultato delle Amministrative – al netto di alcuni buoni risultati (San Cataldo e Alcamo) – ha confermato essere tuttora in atto. Al momento il Capitano si gode il primato del suo gruppo parlamentare, il del centrodestra all’Ars, e le ultime adesioni: quella di Sammartino, capace di trascinare al successo il sindaco di Giarre, e della senatrice Sudano; di Caronia e Pullara, due autentiche spine nel fianco all’Assemblea regionale; di Cafeo, importante tassello nel Siracusano; e di Scoma, il candidato in pectore di Palermo. E non è tutto, perché “ci saranno altri ingressi. Ma non è una campagna acquisti: il nostro è un progetto nuovo, che attrae”, spiega il segretario, lasciandosi alle spalle le amarezze più recenti. La Sicilia, per lui, è motivo di consolazione rispetto al resto d’Italia, dove le ha buscate ovunque: persino a Varese. E il suo partito affronta una crisi d’identità latente, fra l’ala più ortodossa e quella più governista, capitanata da Giorgetti e Zaia.

Nell’Isola, in effetti, il quadro è di gran lunga migliore rispetto al 2017, quando un solo candidato leghista – al secolo Tony Rizzotto – varcò gli ingressi di Sala d’Ercole grazie a una lista raffazzonata col partito del Meloni. Oggi Giorgia e Matteo si contendono il primato delle preferenze e, volendo, anche il nome del prossimo candidato. Che non è detto sarà Musumeci. Un argomento che Salvini ha soltanto sfiorato, mettendo le mani avanti un paio di volte: “L’accordo con Diventerà Bellissima? Non ragiono di passato”. E ancora: “Se oggi volessi far valere il peso della Lega all’Ars – è il succo del discorso – potrei chiedere qualche assessore in più. Ma non è questo che mi interessa”. Ciò che gli interessa, invece, è “essere protagonista” fra sei mesi. Quando conta. Arrivare sull’uscio di palazzo d’Orleans per pronunciare lui l’ultima parola.