“Quando uscì Il Gattopardo – ebbe a scrivere Leonardo Sciascia – sentii un impeto di ribellione per il modo in cui Tomasi di Lampedusa descriveva la Sicilia, un’astrazione geografico-climatica in cui nulla accadeva, nulla poteva cambiare: lui proprio la consacrava alla immobilità».

In effetti, l’immobilismo, il conservatorismo, o peggio il trasformismo gattopardesco, appunto – “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” – sembrava essere stato irrimediabilmente trasformato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con un colpo di genio letterario, in manifesto anti-comunista di ogni partito conservatore, in filosofia di vita di ogni aristocratico e, alla fin fine, da schifo in virtù.

«C’era un fatto ambientale per me abbastanza irritante – continuava Sciascia – : il realizzarsi a Palermo, del detto longanesiano che “non c’é comunista che sedendo accanto a un duca non senta brividi di piacere”. Tutti i comunisti che sedevano col Gattopardo in mano, a concedersi brividi di piacere perché l’aveva scritto un duca, mi infastidivano».

In effetti, il fastidio di Sciascia era comprensibile. Anche perché il contrario non si verificava e non si verifica quasi mai: non c’è duca, infatti, che sedendo accanto ad un comunista non provi un certo disgusto.

O meglio, un duca c’è, anzi oggi purtroppo dobbiamo abituarci a dire “c’era”: Gioacchino Lanza Tomasi.

Da lui il Manifesto del Partito Comunista, la Scuola di Francoforte erano di casa. E con Adorno Gioacchino conversava, letteralmente. Un Duca, figlio adottivo dell’autore del Gattopardo, comunista: primo tratto di una personalità rara, del tutto inconsueta nell’aristocrazia.

Il secondo tratto, rarissimo, è questo: era un Duca colto. E non faceva mistero della sua preoccupazione, della sua rabbia, per l’ignoranza in cui versava e versa l’aristocrazia siciliana (e non solo). Da che cosa si capiva che era coltissimo? Non tanto dalle infinite citazioni di autori, pittori, compositori sconosciuti – Kagel chi era costui?- di cui mi parlava dando per scontato che io li conoscessi tutti (ed io non osavo rivelargli la mia ignoranza e me ne stavo zitto ad ascoltarlo). Che fosse colto si capiva soprattutto dal fatto che non si poteva prevedere il suo parere, ché non seguiva mai i luoghi comuni ma si era fatto ogni volta, leggendo, una propria, originale idea su ogni cosa (esattamente l’opposto di quello che accade in ogni circolo, dove è facilissimo prevedere l’opinione dei soci, posta una qualsivoglia questione). Gioacchino non esitava a dire di no a opinioni consolidate e condivise da tutti e, anzi, diceva sempre la sua, condendola con una battuta meravigliosa o, perchè no, con una bella elegantissima parolaccia, piena zeppa di sanissima rabbia. E ogni volta il suo punto di vista apriva una prospettiva nuova. Per questo ascoltarlo non era mai una noia, ma una sorpresa, un piacere, una arricchimento.

E poi non era solo colto, era enciclopedico e poliglotta. Ho conosciuto molti professori competenti e specialisti della loro materia. Gioacchino invece era competente in una quantità veramente strabiliante di discipline: dalla musica alla storia dell’arte, dalla politica al teatro, dalla letteratura alla filosofia. Una specie di fonoteca e biblioteca vivente. Dopo essere entrati a casa sua, aver ammirato la biblioteca dell’autore del Gattopardo, la sua stessa sconfinata biblioteca con vista mare, arrivava lui, che la biblioteca ce l’aveva dentro. E poi le lingue, una marea di lingue parlate con una competenza e una disinvoltura fuori dal comune.

Ricordo i relatori di due summer school di filosofia svoltesi a casa sua, nella sala che la sua efficientissima, coltissima, dolcissima Nicoletta aveva ristrutturato con lui per l’occasione. Venivano da tutto il mondo, dall’Iran agli Stati Uniti, dal Regno Unito a Israele, dalla Germania alla Spagna: avevano visto il giorno prima la cappella palatina, frutto dell’incontro tra popoli diversi, come si ripete all’infinito, poi avevano visto Palazzo Butera, restaurato sapientemente avendo in mente proprio l’incontro a Palermo fra le diverse culture del Mediterraneo, infine erano stati accolti per pranzo a Palazzo Lanza Tomasi da Nicoletta e Gioacchino nella stessa via Butera al 28 (come mancherai, Gioacchino, in quella via). E lì quegli eminenti filosofi da tutto il mondo avevano visto, anzi sperimentato, la diversità culturale tipica della Sicilia e la varietà delle lingue letteralmente in persona, nel senso che avevano parlato in qualsiasi lingua, di qualsiasi argomento relativo a qualsiasi periodo storico con Gioacchino Lanza Tomasi. E tutti ne erano rimasti incantati, ammirati e grati. Non posso dimenticare la gioia di Sir Anthony Kenny, già presidente della British Academy, dodici lauree honoris causa, dopo la sua conversazione con Gioacchino. Era al settimo cielo. E si sa che gli inglesi sono sempre low profile.

Delle sue conversazioni con me ne ricordo una sull’arcinoto discorso del Principe ne Il Gattopardo: “Vengono – gli inglesi – per insegnarci le buone maniere, ma non lo potranno fare perché noi siamo dei”. Gioacchino condivise la mia idea, e non era cosa frequente, che in quel discorso vi fosse un’implicita citazione freudiana, ossia la descrizione del sentimento di onnipotenza tipico del narcisista, così come lo aveva descritto Sigmund Freud. Entrambi condividemmo l’ipotesi che Giuseppe Tomasi avrebbe potuto aver appreso dalla moglie Alexandra Wolff Stomersee le teorie freudiane e quindi trasformato letterariamente una patologia, il narcisismo secondario, in descrizione della filosofia di vita dei siciliani, nella consapevolezza di fondo, però, che si trattasse pur sempre di un disturbo psichico. Altro che apoteosi dell’immobilismo! In realtà era la pessimistica diagnosi della inguaribile malattia psichica di un intero popolo. D’altra parte era convinto, Gioacchino, che il Gattopardo non fosse per nulla un romanzo conservatore.

Comunque sia, una cosa è certa. Ammesso e non concesso lo sia stato Giuseppe, Gioacchino conservatore non lo è stato mai. In ogni cosa che ha fatto, palazzo compreso che ha rimesso a nuovo a poco a poco con Nicoletta da distrutto che era, è stato sempre originale, rinnovatore e innovatore. Ha rimesso a nuovo l’antico, sia nei suoi studi – il melodramma è stato ideato con l’intento di far rivivere l’antichità classica – che in tutti i suoi incarichi culturali, dove ha riscoperto e valorizzato i cosiddetti minori. Ha trasformato il passato in presente, la classicità in novità e, sempre, la cultura in impegno civile. In questo e in tutto il figlio adottivo di Giuseppe Tomasi, ha, in realtà, come Edipo, ucciso suo padre. Il figlio dell’autore de Il Gattopardo ha contraddetto il gattopardismo. Non è vero che tutto deve restare e resta alla fin fine come prima. Dopo di te, Gioacchino, non tutto è come prima.

Nella foto Giovanni Ventimiglia.
Articolo tratto da Facebook