Giovanni Lucchese si era fatto male i conti. Credeva che la moglie, Rosalinda Tagliavia, lo seguisse nella scelta di pentirsi. Posso tornare da lei? Mi darete i soldi? Era diventata un’ossessione.

Si racconta che quando i poliziotti andarono ad offrire protezione alla donna lei se ne stava sul divano a piangere. E allora ci pensò la mamma, e suocera del pentito, a dire che per loro Johnny poteva rimanere senza mutande. Letteralmente, senza mutande. Neppure i vestiti gli vollero dare.

Ora Johnny ci ha ripensato. Non si pente più. Per ora è in carcere. Una volta che sarà processato e, qualora arrivasse una condanna, finirà di scontare la pena chissà se sarà accolto di nuovo nel focolare domestico. Il carcere è duro, senza affetti e senza soldi.

Si era fatto male i conti il neo pentito e forse pure i magistrati. Cognome di peso nella vecchia mafia e quel nome Johnny che aggiungeva un tocco di gangsterismo. Di cose da raccontare Johnny Luchese sembrava averne una montagna lui che è figlio dell’ergastolano Antonino e nipote di Giuseppe, detto Lucchiseddu, killer di cento omicidi, fra cui quello della mamma del giovane pentito della retromarcia. C’erano gradi aspettative per la sua collaborazione. Ed invece la prima stroncatura arrivò quasi subito. Un giudice disse, infatti, che i suoi verbali non servivano nel processo ai nuovi boss di Brancaccio tra cui c’era pure Giovanni. Non aggiungevano elementi in più rispetto a quelli che la polizia aveva già raccolto sul clan guidato da Pietro Tagliavia, fratello di Rosalinda e cognato di Johnny.

La verità è che la famiglia dei pentiti, coccolati dai magistrati e campati dallo Stato, si è molto allargata. In nome della lotta alla mafia non si è fatta una grande selezione. I pentiti sono spesso lo specchio di una mafia di second’ordine. Come Giuseppe Tantillo del Borgo Vecchio che usava Facebook per cornutiare (ex) parenti ed (ex) amici. Come Francesco Chiarello che giurò di avere assistito nel 2002 all’omicidio di Vincenzo Chiovaro e Antonino Lupo, nella piazza del Borgo Vecchio. Parlò di coltellacci da cucina e ferite che “ci si poteva passare dentro un braccio” ed invece si trattava di lame piccole che provocarono tagli profondissimi, ma tutt’altro che larghi.

I magistrati hanno l’onere di trovare non solo i riscontri alle dichiarazioni, ma anche le prove che non dicano bugie. Bugie che talvolta sono davvero colossali. Come nel caso dell’architetto Giuseppe Tuzzolino che nel suo spasmodico tentativo di accreditarsi come il compare di Matteo Messina Denaro ha creato un esercito di calunniati.

Capita, troppo spesso per la verità, che il pentito racconti ciò che intuisce sia di gradimento di chi lo interroga. Come Massimo Ciancimino ha fatto con il personaggio del signor Franco, il fiore all’occhiello delle sue fantasie.

Ora ci sono due nuovi collaboratori: Francesco Colletti e Filippo Bisconti, capimafia di Villabate e Belmonte Mezzagno. Loro sì che hanno un spessore nella nuova mafia. Specie il secondo che, guarda caso, proviene dal passato di Cosa Nostra, quando i pentiti si chiamavano Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.

Altra mafia, altri collaboratori. Ma ogni stagione ha le sue spine. Anche i migliori investigatori sono caduti nella trappola delle dichiarazioni a rate di Giovanni Brusca o nelle patacche che più patacche non si può: quelle di Vincenzo Scarantino sulle strage di via D’Amelio.