Non basterebbe il pozzo di San Patrizio, quello di Orvieto, per raccogliere tutte le lacrime versate in questi trent’anni in memoria di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, i due magistrati assassinati a Palermo dalla mafia stragista dei corleonesi di Totò Riina in guerra contro lo Stato e contro chiunque si avventasse a cercare verità e giustizia.

Non basterebbero gli infiniti scaffali della biblioteca di Alessandria per raccogliere i nomi di quanti – in Sicilia e nelle città del mondo – hanno scritto una parola o una frase, una canzone o una poesia; di quanti hanno sfilato in silenzio o hanno lasciato un fiore, di quanti si sono esibiti in teatro o o su un palco o in un film per ricordare il coraggio dei due magistrati che, con metodo e pazienza, istruirono il processo che avrebbe portato alla sbarra, nell’aula bunker dell’Ucciardone, 474 boss di Cosa Nostra. Fu quella la più grande vittoria della giustizia: nel volgere di sei anni, tra il 10 febbraio 1986 e il 30 gennaio del 1992, si ebbero tutte le sentenze necessarie – primo grado, appello e Cassazione – per murare dietro le sbarre mandanti, picciotti e killer dell’ultima guerra di mafia: quella che tra il 1981 e il 1983 aveva lasciato per strada oltre seicento morti ammazzati.

La mafia trent’anni fa era forte, potente, tracotante. Controllava appalti e imprese. Aveva i suoi uomini nelle istituzioni, nella politica, nelle pieghe più nascoste del potere e degli affari. Era il tempo di Salvo Lima e delle sue truppe andreottiane di Sicilia. Era il tempo dei terribili esattori Nino e Ignazio Salvo, i cugini venuti da Salemi per dettare legge alla Regione e alla Democrazia Cristiana. Erano gli anni, ruggenti e spocchiosi di Vito Ciancimino, il figlio di un barbiere di Corleone, che era diventato persino sindaco di Palermo e si apprestava, in nome e per conto di Totò Riina, a dare l’assalto alle cosche che facevano capo a Stefano Bontade, detto il Principino, o a Michele Greco, re di Ciaculli, detto il Papa.

Ma erano forti, decisi e determinati anche i magistrati. Certo, il palazzo di Giustizia era quello che era: c’erano i giudici sonnacchiosi e giudici parrucconi, quelli che non volevano mai mettere un dito nell’acqua calda e quelli per i quali era “meglio una parola in meno che una una parola in più”. Ma c’erano anche i procuratori che non si lasciavano inghiottire dalle tenebre, come Gaetano Costa, assassinato a colpi di pistola in via Cavour il 6 agosto del 1980; o i giudici istruttori, come Rocco Chinnici, che per primo ebbe l’intuizione di formare un pool antimafia: la mafia lo fece saltare in aria con una auto imbottita di tritolo, piazzata sotto la sua casa di via Pipitone Federico, il 29 luglio del 1983.

Falcone e Borsellino erano di quel lignaggio, venivano da quella scuola. Erano tenaci, testardi, cocciuti. Gli omicidi di Costa e Chinnici – ma anche quelli di Cesare Terranova, del generale Carlo Alberto Della Chiesa, di Boris Giuliano e Ninni Cassarà, di Pio La Torre e Piersanti Mattarella – avrebbero potuto spaventarli e metterli in guardia. Invece no. Pur avendo contezza del pericolo – “Mi sento un cadavere che cammina”, ripeteva Paolo Borsellino nei cinquanta giorni che sopravvisse a Falcone – andarono avanti. Fino alla morte. Fino all’attentato di Capaci. Fino alla strage di via D’Amelio.

Che cosa resta di quella stagione eroica e straordinaria? Le cerimonie per onorare il trentesimo anniversario delle stragi si sono aperte la settimana scorsa a Palermo con una parata di luccicante autorevolezza: nell’aula bunker dell’Ucciardone si sono ritrovati i procuratori generali di tutta Europa, con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la sorella di Giovanni Falcone e i familiari degli uomini della scorta morti nell’inferno dell’autostrada che collega Palermo all’aeroporto di Punta Raisi. Non sono mancati i momenti di commozione ma anche di inevitabile retorica. “Quest’aula è un tempio della giustizia”, ha detto il primo presidente della Corte d’appello, Matteo Frasca, ricordando le tappe forzate del maxi processo presieduto da Alfonso Giordano con Piero Grasso come giudice a latere. Ma c’è stato pure un passaggio inatteso. E’ arrivato quando il primo pubblico ministero d’Italia, Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, ha trasformato la cerimonia in un atto di accusa: “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ha sottolineato – furono vittime di gravi attacchi da parte di chi, anche in aree della politica e persino delle istituzioni, vedeva nei nuovi metodi di indagine, e soprattutto nella loro efficacia, una minaccia per lo status quo di connivenza, quando non di complicità con Cosa Nostra”. Poi ha fatto una sorta di autodafé e, a nome di tutte le toghe, si è battuto il petto con convinzione, sincerità e contrizione: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. “Anche nella magistratura – ha scandito – vi furono resistenze, a volte anche invidie e ostilità. Ma in tutti questi anni abbiamo corretto i nostri errori e messo a frutto i loro insegnamenti”.

Tutti assolti dunque? Lunedì prossimo, sette giorni prima del 23 maggio – giorno in cui Falcone fu dilaniato dall’esplosione assieme alla moglie, Francesca Morvillo – i magistrati d’Italia, giudicanti e inquirenti, si asterranno dal lavoro per protestare e possibilmente affossare una tiepida, pallida e sfumata riforma proposta dal ministro Guardasigilli, Marta Cartabia. Lo sciopero, indetto dal sindacato unico che va sotto il nome di Associazione nazionale magistrati, è una sfida al governo e al Parlamento. E’ un messaggio inequivocabile: nessuno si azzardi a toccare le nostre toghe. Le correnti più eleganti e più ingessate sostengono che l’obiettivo primario della riforma è quello di limitare la loro indipendenza; quelle più pettorute e leggermente più sguaiate la buttano giù dura e dicono che dietro l’iniziativa di Marta Cartabia si nasconde soprattutto la voglia malsana di regolare i conti con la magistratura, di punire quei pm che giorno dopo giorno cercano di scovare colpevoli e corrotti, che si battono per la legalità e la virtù, che usano il sospetto come anticamera della verità, che intercettano e scavano nelle vite private, che smascherano un presunto colpevole e lo offrono per tutti gli usi, anche quelli più sconci e morbosi, all’opinione pubblica, ai giornali, ai talk-show, alla gogna, allo sputtanamento. Ai magistrati che lunedì scenderanno in sciopero questo sistema piace: Dio glielo ha dato guai a chi glielo toglie. Gli regala potere, prestigio, visibilità. Loro tengono il paese in pugno. Hanno in mano il modulo: un modulo per sbatterti in galera e un altro per espropriarti dei beni, quello che ti chiude le linee di credito e quello che ti spoglia dei diritti civili. Con l’aggiunta di un privilegio divino: non pagano mai dazio, non rispondono mai dei propri errori.

E’ questo il mondo della giustizia sognato e inseguito da Falcone e Borsellino fino alla morte, perinde ac cadaver? Per carità, il lunedì successivo a quello dello sciopero tutti i magistrati, giudicanti e inquirenti, avranno il sacrosanto diritto di specchiarsi e anche di riconoscersi nell’immagine dei due eroi palermitani. Ma i numeri – “la proprietà dei numeri è la giustizia”, annotava Pitagora – raccontano un film diverso, molto diverso. L’ultimo libro di Sabino Cassese, che è stato giudice costituzionale ed è giurista tra i più ascoltati e più influenti, scarnifica il problema e va all’osso senza pietà e senza riverenze. Pubblicato da Laterza, si intitola, non caso “Il governo dei giudici”. Ricorda che la fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura è passata dal 68 per cento del 2010 al 39 per cento nel 2021. Quasi dimezzata. Il crollo è dovuto, secondo le risposte degli intervistati, per il 24 per cento ai tempi lunghi della giustizia, per il 17 per cento alla presenza di magistrati politicizzati, per il 16 per cento a sentenze discutibili. Non solo. Tre quarti degli inquisiti, dopo essere stati indagati, intercettati, arrestati e interrogati, in media dopo quattro anni risultano innocenti. “Se la giustizia fosse tempestiva – sottolinea Cassese – i magistrati dell’accusa avrebbero minor peso e il processo non si sposterebbe nella fase delle indagini”. Infatti il padrone del gioco non è più il giudice terzo e meno che meno il collegio giudicante: quello che segna la vita di un sventurato, di un mafioso o di un semplice malacarne finito nell’ingranaggio giudiziario è il pubblico ministero con l’impropria procedura del naming and shaming, che è quella di fare il nome e all’un tempo svergognarlo, ricoprirlo di infamia e disprezzo.

In tutto questo dov’è la giustizia, lo stato di diritto, la presunzione di innocenza? La magistratura che lunedì prossimo scenderà in sciopero e il lunedì successivo andrà legittimamente a commemorare Falcone e Borsellino crede di avere le carte in regola? Se i numeri di Cassese ancora non bastassero per un serio e spietato esame di coscienza, si potrebbe fare ricorso ai fatti e ai protagonisti di questi ultimi anni. Si potrebbe tornare ancora una volta nell’aula bunker dell’Ucciardone e vedere che cosa è successo lì – in quel “tempio della giustizia” – dal 2013 in poi con l’altro grande processo: quello sulla Trattativa. Istruito con allegria e passione da un procuratore aggiunto che si definiva erede di Falcone e Borsellino – parliamo di Antonio Ingroia – e gestito in dibattimento da un pool di quattro pubblici ministeri è durato cinque anni in primo grado. La sentenza della Corte d’Assise, con le sue pesanti condanne, è stata poi ribaltata in appello e ora si aspetta la Cassazione. Se tutto andrà bene il verdetto definitivo si potrà avere tra la fine del 2023 e gli inizi del 2024. Per quasi dieci anni gli imputati – nove in tutto, tra i quali gli stessi ufficiali dei carabinieri che nel 1993 arrestarono Totò Riina e fermarono il fiume di sangue che scorreva nella Palermo delle stragi – sono stati impiccati all’albero di una gogna costruita a beneficio di giornali e giornalisti; con un testimone principale, Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, che era nient’altro che un pataccaro messo a disposizione dei talk-show per preparare la discesa in politica dello stesso Ingroia, poi precipitato nel baratro di uno zero virgola, ed esaltare l’eroismo degli altri magistrati, presentati al pubblico dei telespettatori e alle piazze chiodate dell’antimafia come gli eroi coraggiosi che finalmente alzavano il velo sulle trame oscure e il patto scellerato tra i boss di Cosa nostra e settori deviati delle istituzioni democratiche. Una boiata pazzesca, rasa al suolo il 23 settembre dell’anno scorso, dai giudici di appello; ma che intanto ha dirottato, su uno ristretto gruppo di magistrati, scorte, benefici e privilegi molto simili a quelli riservati ai capi di stato e di governo.

Altro che le tribolazioni di Falcone e Borsellino, al tempo del maxi processo, quando si dovevano mobilitare dieci o cento apparati di sicurezza per convincere Tommaso Buscetta, boss dei due mondi, a pentirsi ed estradarlo dal Brasile; quando si dovevano accertare i delitti, le violenze e la consistenza patrimoniale di oltre quattrocento famiglie mafiose; quando si dovevano cercare le prove per sostenere un processo sul quale si erano posati gli occhi del mondo. Nella Trattativa il processo non contava quasi nulla: contava, per dirla con una parola rubata a Leonardo Sciascia, il “contesto”. Da un lato una dozzina di imputati – una sporca dozzina, manco a dirlo – smerdata per oltre cinque anni in tutte le tv, a tutte le ore e in tutti i canali; e dall’altro lato gli eroi coraggiosi, i magistrati, che mostravano muscoli e petto, che sfidavano i potenti e i registi occulti, che entravano e uscivano da Palazzo Chigi e dal Quirinale, che intercettavano Nicola Mancino e Giorgio Napolitano, che contrapponevano il proprio potere a quello del Capo dello Stato, che conquistavano posti e posizioni sempre più in alto, che venivano indicati da Beppe Grillo come ministri per il futuro governo. Quei magistrati incarnavano di fatto il “governo dei giudici”. Erano il ritratto aureolato del populismo giudiziario. “Ci si attendeva giustizia e si sono avuti i giustizieri”, scrive Cassese nella controcopertina del suo libro.

Dopo il lunedì di sciopero andranno anche loro – i giustizieri – a onorare Falcone e Borsellino, morti ammazzati trent’anni fa perché volevano garantire giustizia ai siciliani e a tutte le vittime del terrore mafioso. Ma nel pellegrinaggio, c’è da star certi, non mancheranno nemmeno i rappresentanti del potere politico che, con il sottinteso proposito di blandirli e addomesticarli, hanno concesso ai pubblici ministeri d’Italia sempre maggiori poteri. “Lo stato fallimentare della giustizia italiana non è tutta colpa dei magistrati”, riconosce Cassese. “E’ il Parlamento che moltiplica le figure di reato, criminalizzando anche la politica e, quindi, lasciando libero il campo alle procure di sindacarla. E’ sempre il Parlamento che ha fermato e poi rallentato la prescrizione e ha dato le armi alle procure, disciplinando le intercettazioni e consentendo le invasioni nella vita privata tramite i trojan. E’ il corpo politico che utilizza la giustizia come mezzo per cercare consensi. E’ il Parlamento che ha messo se stesso e in larga misura anche il mondo economico in balia delle procure”. Chi ci salverà da questa deriva moraleggiante dove l’ordine giudiziario, che è il maggior controllore della virtù, ha conquistato irrimediabilmente il predominio?

Saranno sette i giorni che da lunedì in poi separeranno lo sciopero dei magistrati dal trentesimo anniversario di Falcone. Sette, come i peccati mortali. Signore, pietà. Miserere nobis.