Dice che non è telepopulista e che non ama la piazza, ma non smette di far esibire Rosario Crocetta che proprio nella sua Arena si è rivelato essere l’ultima paglietta prodotta dall’isola, la condanna della Sicilia al pittoresco. Invitato in studio, in collegamento video o al telefono, l’ex governatore messo a suo agio proprio da Massimo Giletti, ha perfino interpretato il punitore di se stesso, l’avvocato che recita la sua condanna: «Devo dirlo. La Sicilia ha un parlamento canaglia!». Ebbene, adesso che Crocetta è scomparso dalla scena (politica) e la regione sta addirittura cambiando grazie alle “sue” inchieste, è giunto forse il momento di parlare di Giletti, lo stregone che meglio di Benedetto Croce si è dato come missione quella di liberare l’isola dai tarantolati, dai diavoli perché lui, come ripete nelle interviste che rilascia, «ha un vero amore per quella terra».

In realtà è cresciuto in Piemonte, a Trivero, in provincia di Biella e su una cosa Giletti ha ragione: ha sangue siciliano e quindi anche le corde. Siciliana era infatti Maria Bianca Bellia, nonna materna ma soprattutto donna che consumò d’amore lo scrittore Ernest Hemingway: «Era così innamorato che voleva sposarla». Più che un matrimonio, quello tra Giletti e la Sicilia, somiglia a un “contratto d’interesse”, la sapiente sceneggiatura di un conduttore che ha fatto dell’isola il suo business, la caccia alle streghe per “cucinare” gli ascolti. Formatosi con Giovanni Minoli, uomo di televisione composta, Giletti, lo dichiara lui per primo in un’intervista di questa settimana a Panorama, deve tutto a un siciliano che conosce i sapori e gli umori delle casalinghe. È Michele Guardì. «Da Guardì ho imparato a condurre in piedi ma devo dire che mi sento vicino a Michele Santoro. La mia scena cult rimane quella in cui brucia la maglia della mafia con Maurizio Costanzo».

Eclissato il civismo di Santoro e chiuse per volere di Fedele Confalonieri le piazze populiste e posticce di Maurizio Belpietro e di Paolo Del Debbio, Giletti ha infatti compreso, in questi tempi dove si insegue il deputato, che la Sicilia con il suo antico parlamento era il vero Klondike televisivo, la sua corsa all’oro. Saccheggiando le inchieste prima di Gian Antonio Stella e di Sergio Rizzo, portando in studio i cronisti siciliani dalla schiena dritta e indicandoli come esempio virtuoso da contrapporre ai consiglieri regionali trattati alla stregua di mascalzoni, Giletti è di fatto l’autore di un nuovo format a metà tra Pier Paolo Pasolini e Aldo Biscardi: “Il processo alla Sicilia”.

Ogni domenica va in onda il vizio isolano: i dipendenti regionali che sono una moltitudine (ma la vera vittoria è sempre l’iperbole più efficace e stupefacente), i forestali, i disabili che smascherano gli assessori regionali, i vitalizi pagati alle vedove di politici appartenenti al partito monarchico… Giletti e la sua squadra di autori setacciano gli articoli dei quotidiani regionali da riproporre e amplificare portandoli come campioni di privilegi, esempi di ogni nefandezza civile dato che come ha detto, sempre nell’intervista, lui «si è formato sui testi di Norberto Bobbio».

Eppure a rendere di successo la sua Arena, oggi diventata Non è L’arena, è stata la scientifica e geniale composizione degli ospiti: l’integerrimo Klaus Davi che si è perfino candidato in Calabria per sfidare i clan; Daniela Santanché che è donna di politica ma anche di impresa; Mario Giordano che si sa ormai essere il giornalista accademico in materia di vitalizi di Stato. Poi c’è Crocetta. Non c’è dubbio che sia stato l’ex governatore a rendere la compagnia insuperabile. Crocetta corrisponde nella commedia all’uomo che le prende sempre, il tontolone bastonato che fa bastonare un’intera popolazione.

Passato dalla Rai a La7, denunciando l’epurazione, («Orfeo si è reso complice di un’operazione che non è servita neppure a lui»), Giletti piange e si commuove, («Mi immedesimo nelle storie della povera gente»), è mammone, («Torno sempre da mia madre che mi faceva pure le torte»), è sciupafemmine ma non sposato, («Faccio una vita di romitaggio»). Si racconta, anzi, lo ha detto il suo maestro Minoli, che Giletti sia parsimonioso un po’ come Alberto Sordi che di lui ebbe a dichiarare: «Ah Gilè, tu piaci perché parli alle mamme, alle zie, alle nonne».

Da quest’anno è tornato in Sicilia a interessarsi della mafia dei pascoli e in particolar modo delle sorelle Napoli di Mezzojuso. Si è meritato da Sergio Lari, ex procuratore di Caltanissetta, apprezzamenti, («Non poteva credere che la Rai mi lasciasse andare»); ha garantito che la povera dottoressa violentata durante il turno di guardia medica, in provincia di Catania, sarebbe tornata lavorare in una struttura protetta, («Ce l’abbiamo fatta»).

Insomma, è l’uomo più temuto dai politici siciliani e c’è il rischio di vederlo scendere in politica, chissà se proprio in regione. Non ha mai escluso. Finora solo uno ha avuto il coraggio di frenare la sua bile anticasta. È stato Gianfranco Miccichè, uomo abituato alle arene e spettinato, nei pensieri, più di Giletti, al punto da chiudere la discussione così: «È tutta una stronzata».