Non conoscevo Ruggero Razza prima che diventasse assessore e ho motivo di credere che egli non abbia mai saputo di me prima che i nostri destini si incrociassero sugli aspri terreni della pandemia. Del resto ci separano oltre trenta anni di età, un tempo sufficiente a tenerci lontanissimi: nessun evento in comune, nessuna affinità di sentimenti.

Difficilmente rideremmo o piangeremmo per le stesse cose, se capitasse. Nemmeno ci legano nodi ideologici… non ci avvicina un comune sentire politico: io sono un moderato insipiente di sinistra, lui un solido militante di destra. Né, sappiatelo, mi lega a lui l’avido desiderio di favori, che’ credo di aver raggiunto tutti i sogni del mio cassetto (o forse di più, quelli di mio padre, che non fece in tempo purtroppo a vedermeli conquistare) ed ora ambisco a null’altro se non un riposante pensionamento: una crociera Costa in giro per il mondo (gli orizzonti dorati del Bosforo o il sognante attracco nell’isola di Pasqua), la corsa in macchina sfrenata lungo la Route 66 ascoltando Springsteen o MJ.

Se proprio Razza mi volesse male non avrebbe che da affidarmi un incarico prestigioso o altre prebende per una non richiesta visibilità. E tuttavia, malgrado la distanza siderale tra i nostri mondi, ho il dovere di spendere due parole due sulla immeritata vicenda che lo coinvolge. Dopo oltre 35 anni di vita sanitaria, dopo decenni di studi previsionali di eventi pandemici, credo di possederne i requisiti tecnici e l’esperienza:

a) Nonostante mi capiti di leggere frequenti inviti ad evitare la terminologia bellica, non posso fare a meno di accostare la pandemia alla guerra: ciò accade quando ad un richiamo disperato accorriamo al capezzale del morente, accade quando ci si veste da soldati marziani per affrontare un nemico invisibile, accade nelle innumerevoli mansioni del quotidiano inverno che stiamo attraversando, accade nella felicità sospesa e rinviata ad un futuro che tarda a venire. Accade ancora e di più nei tragici bollettini quotidiani (giungano gradite pietose bugie sui numeri infausti). E come i soldati di Ungaretti, anche noi siamo stati a lungo come le foglie degli alberi in autunno. Orbene se questa è una guerra (e lo è) mi pare dissennato il fuoco amico che abbatte la cabina di comando, che crivella la tolda, che disarciona il generale. Fosse a causa di argomenti cruciali per la riuscita del conflitto, capirei. Ma il generale Montgomery diceva: “non chieda il burocrate al militare ferito se è corretto il numero seriale sull’arma che impugna.”

b) Capirei l’accanimento anche se le risultanze del lavoro di Razza fossero carenti, mediocri, inadeguate. Il generale che perde la battaglia va congedato, deve andare via. E invece la Sicilia, con un incredibile colpo di reni, ha capovolto le previsioni: semplicemente funzionando. Più e meglio del nord Italia. Al di là di veniali errori strutturali di ingaggio, il sistema sanitario siciliano ha retto. Il nemico non ci ha invaso e i tassi di mortalità regionale (se stratificati e sganciati da quelli nazionali) non sono superiori alla letalità scandinava o teutonica. In più, per ciò che dipende dalle mansioni regionali, la campagna vaccinale sta funzionando (in barba alle solite Cassandre).

c) Umanamente non stravedo per l’ex assessore. Lo giudico poco empatico e, forse, un tantinello borioso. Ma non posso dire una parola negativa, che sia una, sulla sua tenacia, sulla dedizione al lavoro, sulla sana operosità che ha dedicato alla gestione della pandemia. Quando lo ho incontrato l’ho sempre visto motivato, mai rassegnato. Razionale e belligerante. Personalmente chiedo questo ad un assessore durante una pandemia: non voglio che mi diverta con frizzi e lazzi o che faccia promesse che non può mantenere. Giudicherei sospetto se mi offrisse il caffè: preferisco che mi rimproveri per una mia mancanza.

d) Tecnicamente egli viene accusato di avere sottratto (al pubblico juicio), importanti quote di pazienti infetti, ridimensionando la portata della circolazione epidemica nella regione. Se cosi fosse, mi chiedo a chi ha giovato tale manipolazione. Se ha aperto le porte della fortezza agli eserciti stranieri o piuttosto non ha rifornito di nuove motivazioni e di gradita linfa i soldati esausti e provati. E ancora, da tecnico: se sono state sottaciute caterve di infettati, costoro dove stanno? In quali ascose corsie di nosocomio ricevono assistenza? Perché non riempiono i reparti? O devo pensare che (al contrario di quanto avvenuto nelle precedenti ondate) migliaia di individui si stanno infettando senza ammalarsi? Sta forse avvenendo una inusuale e benevola mutazione del virione?

e) Ho sentito argomentare moralisti d’antan, quelli dello “Iuppiter nos dedit peras duas”. Essi trinciano giudizi etici su Razza per aver usato la sgradevole espressione “spalmare” riferendosi agli individui deceduti per Covid. Sono più spesso umanisti raffinatissimi, filosofi del pensiero debole, sociologi della prestigiosa Scuola di Lipsia e cabarettisti di Zelig. Nessuno di costoro ha avuto a che fare con studi epidemiologici e molti di loro (duole dirlo) hanno affrontato la fase più cruenta della pandemia rintanati in un ripostiglio. Ha titolo il sottoscritto se asserisce che il termine “spalmare” riferito a popolazioni di ammalati o deceduti è utilizzato usualmente e senza verecondia in epidemiologia o in statistica medica? Certo, sarebbe stato più opportuno se il giovine assessore avesse usato la più corretta espressione: “spalmare il numero dei morti”. E tuttavia la frase non è estrapolata dal discorso inaugurale di un importante congresso né fa parte di una rituale intervista televisiva. Vogliamo consentirgli o no di esprimersi al telefono con la sbrigativa e sintetica terminologia dei discorsi colloquiali? E se l’assessore avesse fatto queste affermazioni seduto sulla tazza del gabinetto? L’avremmo interpretata come inaudita offesa alla caducità umana o come estrema e gucciniana dedizione al lavoro (“nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento”)?

Confesso che questo assalto telefonico alla morale individuale mi inquieta non poco: da ragazzo trascorrevo il sabato pomeriggio con amici predisposti al bordello, commentando telefonicamente delle scultoree virtù fisiche delle mie compagne di classe. Con una particolare predisposizione per i seni a balconcino, autentico totem freudiano dell’epoca. Spesso quest’utilizzo non etico dell’apparecchio telefonico veniva interrotto ad urlacci e scapaccioni da mio padre, a cui il Duplex serviva per lavoro e non per cazzeggio. Questa mia volgarità adolescenziale non ha mai inciso tuttavia sulla moralità dei miei comportamenti con le donne: giudicandomi ex post temo al contrario di essere stato un “pacchiottone” seriale. Adesso che (50 anni dopo) i miei livelli di testosterone sono poco più che residuali e fluttuanti … ed il tono del mio umore risulta pietosamente sorretto dalla assunzione di antidepressivi… esiste da qualche parte (nella Costituzione Repubblicana) un paragrafo, un comma, un inciso che mi consenta di commentare al telefono, con un amico goliarda, del culo di una collega o delle labbra a cuoricino di una paziente, senza per questo essere tacciato di immoralità dall’ufficiale in ascolto?

(tratto dalla pagina Facebook di Bruno Cacopardo, direttore dell’unità ospedaliera complessa di Malattie Infettive all’ospedale Arnas Garibaldi di Catania e componente del comitato tecnico-scientifico regionale)