Ho trascorso quasi tutta la mia vita professionale in mezzo agli artisti: come mi piaceva – e mi piace – rispondere quando mi chiedevano «di che ti occupi?», la sequenza era sempre «attori, cantanti, ballerine e soubrette» (più molti registi, qualche pittore, perfino acrobati e domatori di leoni, per dirla tutta). Oggi che, quasi per far dispetto a Brecht, un morbo insidioso ha imposto all’elettricista di spegnere tutte le luci, di far calare il sipario, di far scendere la porta tagliafuoco, di far sedere gli spettatori davanti a quel lenzuolo di sogni chiamato cinematografo uno qui e l’altro lì, a due metri di distanza, separati da nastri divisori, i miei amici artisti sono tristissimi.

Ne hanno ben donde, ovviamente. Qui, a Palermo, al Biondo, il virus-ghigliottina ha decapitato le repliche del “Marat Sade” di Weiss, ha fatto scappare gli ebrei dal tempio di Salomone mentre provavano al Massimo il «Nabucco» di prossimo debutto e fatto fuggire sulle punte Coppelia,  la fanciulla dagli occhi di smalto, ha rubato le mille stoffe e i mille trucchi di Brachetti il fantasista al Teatro Al Massimo,  distrutto l’ombrello di Mary Poppins per farla rovinosamente precipitare sulle tavole del Sant’Eugenio, silenziato gli archi, gli ottoni e le percussioni dell’Orchestra Sinfonica, messo la sordina ai musicisti del Brass Group e imbavagliato i suoi cantanti. E via zittendo, spegnendo, chiudendo.

Non c’è di che stare allegri ma non c’è nemmeno da recriminare come se si fosse l’ombelico del mondo. Qualcuno scriveva sui social: come viviamo? Quesito che spalanca un baratro, comprensibilissimo. Però, prima viviamo. Nel senso letterale del termine, preservando gli artisti stessi e un pubblico che dev’essere tutelato. È un’emergenza, appunto. Come mai s’era presentata prima. Poca cosa, a confronto, una quisquilia, quell’austerity che come effetto collaterale presentò il solo fastidio che provammo, nel ’74, per esser costretti ad andare a teatro in autobus col sipario che s’alzava e le orchestre cui si dava il «la» alle sette di sera (pomeridiane alle quattro), di andare all’ultima proiezione alle otto, i night che alle undici buttavano tutti fuori. Ma lì c’era in ballo un’emergenza energetica, lì bisognava risparmiare il consumo di benzina e di luce (oh, elettricista…). Qui c’è in ballo la salute pubblica, la vita degli artisti e quella di chi li ama, li segue, li applaude.

C’è chi reciterà “a porte chiuse” (il Biondo offre in streaming agli abbonati lo spettacolo su Frida Kahlo del suo direttore artistico Pamela Villoresi, «Viva la vida» – guarda un po’ il destino – che ha solo pochi interpreti e sarà recitato simbolicamente con un unico spettatore in sala, per primo s’è offerto il sindaco Orlando), c’è chi, nei cinema, ha piazzato i nastri del «tu qui, tu lì» che immiseriscono l’incanto globale dei grandi schermi supertecnologizzati o bloccato il meccanismo delle poltrone (ma ieri si contavano pochi spettatori e le sale erano quasi vuote, al di là delle restrizioni stesse), altri restano al palo con gli spettacoli e le tournée, e magari in queste tre settimane riorganizzeranno, progetteranno, chissà, proveranno anche. Ragioneranno su come uscir fuori con minor danno possibile da questo che è certo un bruttissimo colpo ma non è l’Apocalisse. Ed è anzitutto misura necessaria, si spera utile così come inutile (anche stupido, perdonate) fare il paragone con le metropolitane.

Quel che conta, semmai, alla fine di questo incubo, è pretendere finalmente diritti chiari e così come il mondo necessario della sanità pubblica dovrà imporre alla politica il risanamento di quel che la politica ha distrutto in questi decenni, creando negli ultimi giorni un’emergenza nell’emergenza, anche il mondo necessario della cultura dovrà imporre il diritto di esistere con dignità non solo nei momenti di criticità come questo ma giorno per giorno, senza più sprechi e carrozzoni, senza troppa politica tra i piedi, ma soprattutto senza più precarietà, senza elemosine, senza soldi a pioggia, con leggi chiare una volta per tutte, senza favoritismi né compromessi.

Per il momento, solidarietà, affetto, conforto (ve lo sta già dimostrando il vostro pubblico) ma niente cori greci, per favore, niente alti lai, solo un doveroso venire incontro alla comunità a costo di un sacrificio, grave ma necessario. Dei diritti si parlerà dopo, e con la fermezza assoluta. Per adesso, spegni quel riflettore, elettricista.