Fosse solo l’età a farne il decano dei giornalisti siciliani, sarebbe puro calcolo anagrafico. Ma Nino Martinez, 95 anni oggi, e mai come in questo caso è appropriata la similitudine con le “primavere”, è forse anche il più arzillo non solo tra i coevi che hanno fatto questo mestiere ma anche fra quelli che qualche anno (o diversi) in meno ce li hanno. Scrive ancora libri (l’ultimo è della scorsa primavera, «Così per gioco – Un libro miracoloso per guarire dalla serietà»), è presente su Facebook, va a teatro nonostante la prosa ormai per gran parte lo annoi e prediliga invece la lirica, esce ogni mattina tranne che dovesse affacciarsi minaccioso Giove Pluvio, si informa sulla sua vecchia, amata carta stampata ma anche sullo schermo del pc.

Al “Giornale di Sicilia” entrò poco più che ventenne, dunque tra la fine del 1944 e gli inizi del ’45. C’è rimasto poco più di 40 anni. Cronache sportive agli inizi, come la maggioranza dei cronisti “di razza” e poi via via la cronaca, gli interni, gli esteri, la “regionale”. Redattore instancabile, “titolatore” altrettanto anche se in questa veste era costretto a tenere a bada la sua dote più spiccata – l’ironia – per non urtare la suscettibilità dei lettori più tradizionalisti.

Ma quella dote l’ha poi profusa nei libri che ha scritto, specie quelli di cronache familiari (la moglie e le due figlie  “bersagli” principali): in quelle pagine non risparmiava un tono a volte affettuosamente mordace, un sarcasmo appena velato dal sentimento mettendo alla berlina le dinamiche dei rapporti domestici, vestendosi ovviamente con i panni della “vittima”. Libri che hanno avuto gran successo editoriale in quegli anni Settanta in cui la letteratura “leggera” era in gran voga (Amurri o Vaime, ai quali si affiancò spesso nelle classifiche).

Carattere tutto sommato mite, quello di Nino, incline per lo più al sorriso e allo scherzo, il che lo rendeva amabile presso i novizi. Ma di scherzi ne subì anche lui: come quella volta che lo invitammo a festeggiare l’assunzione di un giovane collega promettendogli, visto che non aveva fatto in tempo a telefonare alla moglie (e non c’erano cellulari), che sarebbe stato un convivio allegro e veloce ma omettendo che il banchetto si sarebbe tenuto in un ristorante a 250 chilometri dalla redazione. Si tornò in città alle quattro e poco ci volle perché trovasse i carabinieri a casa, avvertiti da un’allarmatissima consorte.

Di storie e aneddoti redazionali ne custodiva a valanga. Ad uno era particolarmente legato, accaduto in uno dei giorni successivi al disastroso terremoto del Belice, nel gennaio del ’68, momenti frenetici tra inviati che si davano il cambio, edizioni straordinarie, menabò che si disegnavano e si smontavano dopo pochi minuti. A tarda sera lo chiama, da Santa Ninfa, Roberto Ciuni: gli racconta di un cane macilento, rinsecchito, triste che molestava abbaiando i vigili del fuoco che scavavano tra le macerie. I pompieri lo cacciano ma l’animale non vuol saperne e continua ad abbaiare. Fino a che uno di loro lascia il gruppo e lo segue. Il cane lo porta sulle macerie di un’altra casa, da sotto arrivano guaiti flebili, l’uomo chiama i colleghi e cominciano a scavare e tirano fuori dai calcinacci una cagna coi suoi cinque cuccioli. «È una bella storia, anche se è tardi: ti scrivo 50 righe?», mi chiese Roberto, raccontava Martinez. «Sei pazzo!, gli risposi, scrivine almeno 90! E messa giù la cornetta, lo confesso, cominciai a piangere».