Non sarà stato il governo più attento alle esigenze della Sicilia e del Mezzogiorno – d’altronde, con la Lega, come fai? – ma la crisi innescata da Matteo Salvini, in attesa di capire cosa intende fare Sergio Mattarella (se un esecutivo di “scopo” o nuove elezioni), rischia di pesare non poco sulle sorti dell’Isola. I tavoli aperti con Roma sono rinviati a data da destinarsi. Le decisioni più importanti, dal pronunciamento del Cipe sulla Ragusa-Catania, passando per la ratifica dell’accorso spalma-disavanzo e sulla fiscalità di sviluppo, restano in stand by. Come in stand by rimangono cinque mila posti di lavoro, al centro di numerose trattative con lo Stato: dai 1.600 lavoratori dei call center di Almaviva, passando per Blutec e i 670 operai di Termini Imerese che nei giorni scorsi avrebbero dovuto ottenere la proroga della cassa integrazione. La crisi rimette tutto in bilico.

Ma qui le responsabilità sono anche di un governo regionale che – hai voglia di dare la colpa agli altri – non è mai riuscito a chiudere un accordo serio. L’unica volta che l’ha fatto – i 100 milioni destinati alle ex province per pagare gli stipendi, con soldi sottratti al capitolo degli investimenti – c’ha rimediato una figuraccia, nonostante i rapporti personali (buoni, dicono) fra l’assessore all’Economia Gaetano Armao e il Ministro Giovanni Tria. Musumeci ha mandato in avanscoperta il suo vice, e ha fallito. Poi s’è accorto del fallimento ed è tornato in prima linea. Senza riuscire a mascherare le sue pecche: da un lato l’incapacità di dialogare con i Cinque Stelle, che nel governo Conte ricoprivano ruoli chiave (Musumeci ha definito Toninelli, ministro delle Infrastrutture, “una calamità naturale”); dall’altro non riuscendo a calamitare le attenzioni della Lega, nonostante l’asse privilegiato (ma solo sulla carta) con Matteo Salvini. Non si ricorda un intervento del Carroccio a favore della Sicilia – non da Salvini, non da un ministro chiave come Centinaio (all’Agricoltura) – se non per ripianare il dissesto di Catania. Adesso che il governo è “imploso”, la situazione rischia persino di degenerare.

Uno snodo cruciale per l’Isola è rappresentato dal maxi disavanzo da 500 milioni che Musumeci e Armao speravano – inizialmente – di poter spalmare in 30 anni, come il resto del debito (2,1 miliardi complessivi). Dopo un lunghissimo tira e molla, e la ritrosia del ministro Giovanni Tria, sembrava esserci l’accordo per ottenere una dilazione decennale. Ma come fa sapere adesso il vice-governatore, “l’accordo deve passare di nuovo in Consiglio dei Ministri. In questo momento è congelato”. Dalla spalmatura dipendono le prossime Leggi di Stabilità. Solo in questi giorni, fra l’altro, e grazie all’accordo con Roma, la Regione è riuscita a sbloccare 114 milioni dell’ultima Finanziaria e destinarli ai capitoli più urgenti, le cosiddette “obbligazioni giuridicamente vincolanti”. E anche lì alcune voci sono state ridimensionate: rispetto ai 48 milioni promessi al trasporto pubblico, ne sono arrivati 41. Qualora la spalmatura dovesse ritardare, la Sicilia sarà costretta a inseguire anche nelle prossime manovre. Chissà per quanto.

Restando in ambito economico, un altro tassello da mettere a punto fra Palermo e Roma riguarda l’autonomia finanziaria dell’Isola. A maggio la giunta regionale ha approvato la bozza delle norme d’attuazione degli articoli 36, 37 e 38 dello Statuto “uniformandole anche agli orientamenti della Corte costituzionale, che ha auspicato una riconsiderazione complessiva dei rapporti finanziari tra Stato e Regione, nell’ottica di una diminuzione dei contenziosi”. La rivisitazione di questi articoli, che deve ottenere il placet da Roma, potrebbe vale per l’Isola qualcosa come due o tre miliardi. Fra i punti del negoziato, come rivelato da Mario Barresi su La Sicilia, “nuovi meccanismi di riconoscimento dell’insularità, di fiscalità di sviluppo, di vantaggi economici nei confronti di chi viene a investire o a vivere nell’Isola”. In generale, verrebbe rimesso in discussione il prelievo forzoso dello Stato, che grava per 200 milioni l’anno sulle ex province (già falcidiate) e il contributo da 1,3 miliardi della Regione al risanamento della finanza pubblica.

Tra i tanti dossier da ridiscutere con il nuovo esecutivo, c’è anche quello relativo al pacchetto di immobili che passerebbe sotto il controllo della Regione. Il Palazzo delle Finanze di Palermo dovrebbe ospitare la Corte dei Conti, permettendo un risparmio da due milioni l’anno. In bilico, sempre a proposito di quattrini, le agevolazioni economiche per le zone economiche speciali. Musumeci ne ha inaugurato un paio a scoppio ritardato (quella della Sicilia Occidentale e quella della Sicilia Orientale giusto qualche giorno fa). All’interno dei perimetri individuati dalla Regione ricadono le attività che da Roma dovrebbero ottenere 250 milioni di finanziamento, in forma di credito d’imposta, per garantire investimenti, sgravi fiscali per chi assume, ammortamenti e agevolazioni per le aziende. Secondo quanto annunciato dal Ministro per il Sud, Barbara Lezzi, l’ok sarebbe dovuto arrivare il 25 settembre. Ma in quella data potrebbe essere piena campagna elettorale.

Un capitolo assai delicato, inoltre, è quello delle opere pubbliche. Con lo stop all’esperienza di governo gialloverde, torna a rischio la definizione del fondo ‘salva opere’, che avrebbe dovuto sbloccare i lavori nei cantieri della Cmc, in modo particolare la Palermo-Agrigento e la Agrigento-Caltanissetta, dove tantissime imprese siciliane non vedono più un euro da mesi: “Le modifiche al fondo ‘salva opere’ approvate all’ultimo Consiglio dei Ministri che avrebbero permesso un rapido pagamento delle aziende in crisi nei cantieri CMC in Sicilia – spiegano i deputati grillini in una nota – sono a rischio a causa della crisi di governo. Il ritocco normativo che chiariva aspetti importanti per le aziende, come, ad esempio, l’accessibilità ai fondi per quelle imprese che non avevano il Durc regolare proprio a causa del mancato pagamento delle opere realizzate, era inserito nel decreto legge “Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali” che il Consiglio dei Ministri del 6 agosto aveva approvato “salvo intese” – continua il M5S – Questa parte del decreto ora è a rischio”. Anche se Di Maio (pare) stia facendo il possibile per arrivare all’approvazione.

Ma il colpo di scena più clamoroso è quello che riguarda la Ragusa-Catania. La modifica del progetto – che dal gruppo Sarc di Bonsignore sarebbe dovuto passare all’Anas, in qualità di nuovo soggetto attuatore – rischia di arenarsi una volta per tutte. Non sarebbe strano dopo vent’anni d’attesa. Gli artigli mostrati dall’assessore regionale Marco Falcone (e la mobilitazione di Musumeci in queste ultime settimane) non sono bastati, dato che il Ministro Toninelli ha fatto e disfatto a suo piacimento. E ha finito per sfilare l’opera (una superstrada da 68 km) dalle mani del privato (apparentemente) per abbattere i costi del pedaggio. Avrebbe voluto realizzarla con finanze pubbliche. Peccato non abbia mai comunicato come intende trovare i soldi (448 milioni) per la realizzazione dell’arteria, né quanti milioni debba alla Sarc per l’utile mancato. L’appuntamento del prossimo 5 settembre, al Cipe, poteva fare chiarezza. Ma questo punto la riunione diventa una chimera.

Anche se i sindaci interessati non disperano: “Chi ha esultato per aver ottenuto la promessa di un’autostrada senza pedaggio, ha commesso un peccato d’ingenuità anche perché non ha tenuto conto del quadro politico in cui navigava. Con la crisi del governo in atto e gli scenari che si intravedono, non è difficile prevedere che la Ragusa-Catania andrà a farsi benedire. Quindi chiediamo di riportare le lancette dell’orologio indietro e riprendere il progetto originario che aveva ottenuto tutti i visti. Riguardo alla crisi di governo, una volta tanto si può dire che non tutti i mali vengono per nuocere”. Certo, percorrere quei 70 km costerebbe 15 euro. Piuttosto che niente, è sempre meglio piuttosto.

L’ultimo capitolo, e qui il dolore s’amplifica perché ci vanno di mezzo le persone, è quello che riguarda i lavoratori. Secondo la Cgil ballano 5 mila posti. Una quota prorompente è quella costituita dagli operatori del call center Almaviva, di Palermo: da qui al 10 settembre, 1.600 potrebbero restare a casa. Ci sono due tavoli al Ministero. Uno fissato per il 5 settembre, l’altro per il giorno seguente. Ma chi darà delucidazioni con un Di Maio svuotato di poteri? Ed è lo stesso Di Maio che con le sue visite a Termini Imerese aveva promesso non solo ammortizzatori sociali – quelli che oggi servono ai 670 dipendenti lasciati in mezzo a una strada da Blutec – ma anche un graduale reinserimento in azienda che non s’è visto. Tra le altre vertenze aperte, quella per salvare il futuro ai 112 lavoratori di Acqua Azzurra, l’azienda di acquacoltura di Pachino devastata da un nubifragio, e gli 85 di Myrmex. Tutti in balia di un governo che non esiste più.