Quando i ribelli del Partito Democratico, ieri, hanno annunciato l’intenzione di disertare il congresso per un cavillo burocratico (vogliono la lista dei nomi che lo scorso gennaio partecipò alla consultazione online per stabilire le regole del congresso), hanno finito per sbloccare un ricordo: era il 28 dicembre dell’anno scorso e l’aula di Sala d’Ercole si apprestava a votare la Finanziaria, con tanto di mance. Dopo aver strappato un accordo alla maggioranza, assicurandosi un bel bottino di finanziamenti (secondo una spartizione scientifica), i deputati di Pd e Cinque Stelle votarono comunque contro. Ma non riuscirono a cancellare le tracce dell’inciucio su cui si fonda la legislatura.

E’ a quel punto della storia che il destino del Pd sarebbe potuto cambiare, affermandosi come vera alternativa a Schifani e al centrodestra. Invece i deputati dem si sono espressi per la conservazione della specie: meglio un tesoretto oggi che una battaglia domani, finendo per annientare quel briciolo di credibilità rimasta. Per la verità fu solo Barbagallo, in quella circostanza, a minacciare un esposto alla Procura per denunciare il metodo della spartizione dei “contributi”: vero, non sarebbero più andati direttamente alle associazioni bensì ai comuni (che avrebbero avuto l’onere di distribuirli). Ma in ogni caso, come suggerirà più tardi un fitto dossier del Ministero dell’Economia, non è questo il modo – senza gare, senza criteri, senza una graduatoria – di spartire soldi pubblici.

Il Partito Democratico s’è rifugiato dietro l’ovvietà che “così fan tutti”, e anzi i deputati più resilienti hanno messo nel mirino Barbagallo per aver osato un’azione di disturbo. Il segretario, dal suo comodo scranno di Montecitorio, non era stato investito da ore di trattative e compromessi al ribasso; anche se aver messo a nudo le pratiche di palazzo, anche da parte dell’opposizione, ebbe un eco non indifferente. Se ne vedono i segnali ancora oggi: il Pd è spezzato in due. Da un lato il segretario uscente, con l’appoggio della Schlein e di alcuni fedelissimi; dall’altro il resto del gruppo parlamentare, quasi al completo, che non essendo riuscito a esprimere un’alternativa (è saltato Cracolici) minaccia azioni legali.

“Se non arriverà la chiarezza che abbiamo chiesto sui nomi che hanno votato online all’assemblea di gennaio, quando fu approvato il regolamento, ci rivolgeremo alla Commissione nazionale di garanzia. Chiederemo l’annullamento di tutti gli atti da quel 27 gennaio in poi”, hanno dichiarato in conferenza stampa i “ribelli”. Tra i quali spiccavano il capogruppo all’Ars Michele Catanzaro, l’ex sindaco di Troina, oggi parlamentare regionale Fabio Venezia, e l’europarlamentare Giuseppe Lupo. Uno di quelli che il Pd ha già tradito una volta, alla vigilia delle ultime Europee: quando per fare spazio alla candidatura di Caterina Chinnici, il partito si piegò a una deriva giustizialista che ebbe l’effetto di escludere lo stesso Lupo (già capogruppo durante la legislatura Musumeci) dalle liste.

A capo del partito c’era già Anthony Barbagallo, il cui regno è coinciso – palesemente – con alcuni dei momenti più imbarazzanti della storia recente. La candidatura e la debacle della Chinnici, che un anno dopo saluterà i “compagni” per approdare in Forza Italia, è certamente uno dei più disastrosi. Lo stesso segretario uscente, fino a ieri l’unico ad aver depositato la candidatura, tira dritto per la sua strada: “Ce la metterò tutta per costruire, in questi anni, una prospettiva credibile per garantire un’alternativa ai siciliani – ha detto il deputato nazionale, che nei primi anni della sua carriera politica militò fra gli autonomisti -. Dispiace che una parte del partito abbia deciso di sottrarsi ma, con spirito di apertura ed inclusione, cercheremo ostinatamente di coinvolgere tutti in questo processo, a partire da tutte le iscritte e gli iscritti”.

Ma basterà davvero la pubblicazione di quei nomi, e il tentativo di sgomberare il campo dall’ipotesi di brogli, per ritrovare il presupposto della concordia? Per affermare che il Pd non solo rappresenti l’alternativa alla destra, ma anche la guida carismatica di un’opposizione sempre più sfilacciata e inconsistente? Ovviamente no. Perché in questa storia che si trascina da anni, e che è passata da altri congressi monchi (Faraone, vincitore sulla Piccione, venne sbaragliato dalla Commissione di garanzia; Barbagallo non aveva concorrenti a Morgantina), si rischia di non cogliere la vera essenza del problema. E cioè: cosa rappresenta oggi il Pd, quali valori incarna, su quali battaglie può ancora distinguersi? E soprattutto, come spera di ripristinare un punto di contatto con il suo elettorato che – almeno in Sicilia – risulta totalmente smarrito ed estraneo ai riti delle poltrone e delle mance? Non ci può ridurre a una lista di nomi, né di buoni propositi. Serve un’operazione di ampio respiro e qualcuno che ammetta di aver sbagliato. Ma anche che Roma – dopo aver riempito le liste siciliane di “paracadutati” – si ricordi dell’Isola non solo per le ricorrenze dei morti ammazzati, ma ogni giorno. Ridandole la dignità perduta.