Se Schlein riuscirà ad “estirpare” – come ha dichiarato – i capi bastone e i caicchi, potrà evitare la fine di quanti l’hanno preceduta alla guida del Partito democratico, di essere travolta in corso d’opera dai contrasti e dalle lotte di potere delle correnti organizzate. Potrà definire il profilo del nuovo partito, che nel suo documento congressuale e nel discorso di insediamento ha delineato pur, come era inevitabile, con alcuni margini di genericità. Sarà facilitata nel rinnovamento, valorizzando i cosiddetti “millennials”, dei quali lei è, in fondo, espressione.

Schlein è attesa con curiosità e con una buona dose di favore. In un Paese fortemente maschilista, intanto, è un risultato eclatante che a guidare il governo e il maggiore partito di opposizione siano due donne, la prima espressione di una cultura in larga misura tradizionale, perfino con tratti tragicamente sperimentati e con tutti i limiti ma insieme le certezze che questo comporta. La seconda, invece, figlia di un mondo del tutto nuovo rispetto ai tradizionali punti di riferimento della sinistra italiana, almeno così come si è concretizzata nel Partito democratico e di conseguenza con i rischi e le opportunità di ciò che è nuovo. La segretaria di quel partito, per la prima volta, non è né un’ex comunista, né un’ex democristiana. Si può dire che non abbia le consuete radici antiche, solide o apparentemente tali, che, come tutte le radici, possono alimentare ma rischiano di trasformarsi in legacci che radicano e bloccano, non consentono di uscire fuori dai solchi per capire ciò che di nuovo spira nel mondo circostante. In fondo è stato questo uno dei motivi della crisi del Partito democratico e più in generale della sinistra italiana: la chiusura, l’autoreferenzialità, la difficoltà di dialogare col mondo che cambia, di capirlo, di intercettare nuovi valori e nuove sensibilità, portando così al disincanto e all’allontanamento di tanti e favorendo la vittoria della destra.

Quando si passerà dalle affermazioni di principio alla concretezza delle scelte, alla delineazione di un progetto preciso all’interno di quel contesto che Schlein ha delineato, si capirà se il Partito democratico avrà trovato una identità nuova e definita e la credibilità per essere reale forza alternativa nel Paese, sposando i diritti civili con la crescita e la giustizia sociale.

Da questo dovranno derivare, come viene rilevato da molti, le alleanze, senza cedimenti di natura populista ma con la concretezza di chi vuol essere forza di governo e tuttavia non rinuncia all’ancoraggio a valori e a principi, senza il quale destra e sinistra diventano intercambiabili e indistinte.

Per ciò che riguarda la realtà siciliana, vengono due domande: come si traduce la promessa “stiamo arrivando”?, con quali programmi?, e con chi arrivare? Schlein non può immaginare di arrivare con il gruppo dirigente attuale, che nel tempo ha mostrato di non essere competitivo con la destra, di non sapersi intestare un progetto evidentemente ad essa alternativo e così, anche dal punto di vista numerico, ha finito per essere una realtà quasi residuale.

Il Partito democratico, con l’eccezione della città di Trapani, non governa nessun capoluogo e quasi nessuna città di un qualche rilievo. In Assemblea poche volte è riuscito ad intestarsi battaglie su questioni fondamentali di questa nostra terra. Più in generale, non ha avuto la capacità di instaurare un coinvolgimento emotivo con la gente, che non rappresenta un’astrattezza priva di senso, ma un presupposto essenziale per accendere un dialogo, per suscitare un interesse, per essere dalla parte di coloro che sono collocati negli ultimi posti della scala sociale. Anche in Regione si pone il problema delle alleanze, che anche qui deve essere affrontato dopo aver delineato una identità ed una proposta che diano senso all’opposizione e riducano lo spazio all’improvvisazione e al populismo di chi rimane ancora in una zona non chiaramente identificabile del panorama politico.

Ci sono due o tre questioni sulle quali si possono costruire quello che, con una frase abusata, si chiama “campo largo” e l’alternativa alla destra. C’è l’autonomia differenziata, il tentativo di “secessione dei ricchi”, il progetto che, se realizzato, finirebbe per approfondire il divario tra il Nord e il Sud e per realizzare una dinamica nella direzione opposta all’esigenza, come dice Schlein, di “ricucire il Paese”.

Senza tornare su cose già dette, è assurdo immaginare che questioni come l’ambiente, l’energia, la salute, la ricerca scientifica, le grandi reti di comunicazione, le produzioni farmaceutiche, l’istruzione, questioni che hanno assunto ormai una dimensione che va molto al di là di quella dei singoli Stati, possano essere sequestrate e ricondotte al localismo delle singole Regioni per soddisfare l’egoismo dei leghisti. Sulla autonomia differenziata, sulla quale, per pura ragione di appartenenza politica, la Giunta ha dato il proprio assenso, immaginando di ottenere in cambio, non si sa quando né come, interventi compensativi sulla insularità, si può aprire un ampio terreno di confronto e di scontro. Il Partito democratico potrà attivare i circoli dove esistono, i consigli comunali, per portare la questione all’attenzione dei cittadini, per far capire che la destra isolana è ingabbiata in una logica nazionale che la costringe a non fare gli interessi del proprio territorio.

L’altro argomento, anch’esso citato per titoli, è quello del lavoro o piuttosto della mancanza di lavoro che sta provocando la desertificazione demografica, umana e sociale di questa nostra terra. A questo problema la risposta non può essere né solo, né prevalentemente, il reddito di cittadinanza, che tuttavia ha rappresentato un rimedio ad una condizione sociale che sarebbe stata ancora più drammatica di quella esistente. Anche questo è un terreno di impegno e di scontro per denunciare la soluzione che si sta adottando in campo nazionale e che non mira ad eliminare gli aspetti negativi della legge sul reddito, ma a ridurre drasticamente il numero dei percettori e l’entità della somma percepita da ciascuna famiglia, restando del tutto assente l’obiettivo di creare lavoro e trasformando, di conseguenza, la proposta di riforma in una punizione per i poveri e in una rivalsa su chi quel reddito ha proposto ed attuato.

Un terzo argomento riguarda le infrastrutture dell’Isola, segnate da un ritardo e da una inadeguatezza tali da non renderle minimamente in grado di garantire sviluppo e di avviare il lungo, difficile processo di allineamento della Sicilia e del Sud al resto d’Italia.

Né è una risposta seria il ponte che, un giorno sì e l’altro pure, il greve, fantasioso Salvini annuncia come già fatto.

Si tratta di questioni che dovranno comporre, insieme con altre, la ripresa di un tema da anni abbandonato sul piano culturale, prima che politico: quello del Mezzogiorno. La responsabilità appartiene alla classe dirigente meridionale, non solo quella politica, che non ha saputo elaborare su di esso un’idea all’interno della globalizzazione e ha sposato acriticamente concetti di natura neoliberista che hanno ristretto, fino ad annullarlo, lo spazio per l’intervento pubblico e dello Stato, assolutamente indispensabile in questa realtà. Non è un problema che appartiene solo al Partito democratico e alla sinistra. Nei decenni passati, il dibattito sul Mezzogiorno, pur con alcune diversità, attraversava e coinvolgeva la cultura cattolica, quella liberale e quella marxista. Dovrà essere comunque uno degli obiettivi, quello prioritario del gruppo dirigente del nuovo Partito democratico in Sicilia, perché “stiamo arrivando” non si esaurisca in un annuncio o magari nella sovrapposizione di alcune facce nuove ad altre antiche ed usurate.

Occorre arrivare con proposte precise sul terreno culturale, economico, su quello dei valori, a cominciare dall’accoglienza e dalla giustizia sociale, senza le quali non si potrà realizzare una società coesa, responsabile e moderna.