Da ostaggio qual è, la Sicilia potrebbe diventare vittima delle numerose divisioni del centrodestra, che è stato chiamato a governare la Regione ma non è mai riuscito – dal 25 settembre – a mostrarsi compatto e focalizzato sulle numerose sfide che l’attendono. L’esecutivo s’è insediato da quasi due settimane, ma l’avvicinamento al primo stress test della legislatura, la parifica del rendiconto 2020 che andrà in scena sabato prossimo, è stato turbato da numerosi avvenimenti. In primis la spaccatura dentro Forza Italia, con la creazione di due fazioni contrapposte (Schifani vs Micciché); poi dai diktat romani che hanno condizionato la scelta degli assessori in casa Fratelli d’Italia, con la profonda umiliazione inflitta a un paio di (ex) fedelissimi di Musumeci; e infine dai malumori interni alla Lega, che per l’evidenza delle beghe altrui, sono rimasti a lungo sottaciuti.

Fino a ieri, giorno dell’intervista del segretario regionale Nino Minardo a ‘La Sicilia’. Il deputato del Carroccio, da qualche settimana a capo della commissione Difesa di Montecitorio, era stato individuato da molti dei suoi colleghi come un “candidato di sintesi” perfetto per il dopo Musumeci, ma alla fine ha scelto di proseguire la propria esperienza nella Capitale, lasciando l’onere a Schifani. Oggi, però, si ritrova nella condizione di dover affrontare una convivenza difficile: quella col vicegovernatore Luca Sammartino, che si è confermato Mr. Preferenze (secondo solo a Tamajo) nonostante il doppio carpiato negli ultimi cinque anni (dal Pd alla Lega, passando per Italia Viva). Il fatto che nessuno della vecchia guardia leghista abbia ottenuto l’ingresso in giunta, ma che della situazione si siano avvantaggiati due neofiti del Carroccio (l’altro è Mimmo Turano, approdato tra i salviniani alla vigilia delle elezioni), ha lasciato qualche scoria inevitabile in chi – come Vincenzo Figuccia – aveva sperato in un ruolo “operativo”. E anche in chi, come Minardo, vede le condizioni mutate rispetto a quando prese in mano la Lega, un paio d’anni fa, per renderla un partito inclusivo e aggregante, oltre che disponibile a federarsi con movimenti “civici e autonomisti”.

Che quello spirito sia dissolto, in generale, è lo stesso Minardo ad ammetterlo fra le righe: “Non so cosa sia una “sammartinizzazione”, so però che in politica c’è la leadership e la mera occupazione di potere. Per esercitare la prima ci vogliono idee e coraggio, mentre l’occupazione del potere richiede solo scaltrezza e spregiudicatezza”. Poi un sms a Salvini: “Occorre ripartire da dove ci siamo fermati prima di precipitare sulle elezioni in piena estate. Il rischio è altrimenti l’atrofia politica e la riduzione del partito a un aggregato di soggetti con un certo numero di preferenze”. La Lega, a livello regionale, non può ridursi a un partito leaderistico. E’ questo il messaggio. Ma Salvini dovrà anche rendersi conto delle opzioni sul tavolo e qual è l’orientamento migliore da perseguire. Allo stato dell’arte prevale, forse, lo smarrimento di chi aveva immaginato una gestione ‘inclusiva’ e invece s’è ritrovato con un paio di rappresentanti in giunta che non s’identificano con la missione del partito “terrone e aperto”. Ma c’è anche la posizione di chi, come l’ex assessore catanese Fabio Cantarella, esponente della segreteria nazionale del Carroccio, difende i nuovi ingressi “senza i quali non avremmo fatto le liste e superato lo sbarramento in Sicilia. Minardo? Non ha convocato il partito neppure per la doverosa analisi post voto – dice a Live Sicilia -, non risponde al telefono a tantissimi militanti e dirigenti di partito, si nega per incontri e riunioni”.

Nel frattempo la Lega ha perso per strada un sostenitore importante: l’ex governatore Raffaele Lombardo, che dopo aver acconsentito a una federazione con Salvini, in piena campagna elettorale s’è smarcato, addebitando le colpe a un Carroccio troppo schiacciato sulle questioni nordiste: “La Lega insiste sull’autonomia differenziata: sarebbe una secessione di fatto”. Minardo, invece, non ha mai interrotto i contatti con il leader del Mpa. Anzi, li avrebbe persino rinsaldati. Da qui l’idea di una “cosa biancazzurra”, come l’ha definita Mario Barresi su ‘La Sicilia’, per mettere al riparo Renato Schifani dalle frange più estreme della coalizione: Fratelli d’Italia da un lato, Forza Italia 2 – quella di Micciché – dall’altro. L’ipotesi è tutta in divenire e Minardo, per il momento, non ha intenzione di approdare ad altri lidi. Ma in questo centrodestra inverosimile, tenuto insieme con uno sputo (già dai tempi di Musumeci e, probabilmente, per responsabilità diretta di Musumeci e del suo “cerchio magico”), è sempre più difficile trovare la quadra. La seconda votazione all’Ars, per eleggere i vicepresidenti dell’Assemblea, ha fatto emergere un profondo malcontento che ha consentito al grillino Di Paola di riportare più voti della candidata della coalizione di governo, Luisa Lantieri (35 a 32), approfittando dei ‘franchi tiratori’.

La faida interna a Forza Italia ha toccato picchi grotteschi: la suddivisione in Forza Italia 1 e Forza Italia 2, a cui si sta cercando di rimediare almeno sotto il profilo semantico, è una ferita aperta che continuerà a sanguinare fin quando Berlusconi non si deciderà ad applicare un cerotto. O una benda. La rottura fra Miccichè e Schifani è sopraggiunta per l’esclusione del commissario forzista dalle decisioni sulla giunta e, in modo particolare, per il rifiuto del governatore di concedergli carta bianca sulla scelta dell’assessore alla Sanità. Ora Micciché, che ha tutta l’intenzione di rimanere a Palermo (e che ha denunciato il tentativo strenuo dei rivali interni di ‘indirizzarlo’ a Roma con ogni tipo d’offerta) costituisce un pericolo costante per la sopravvivenza del governo. Anche se la sua formazione, che conta su appena quattro deputati, non può dirsi ancora l’ago della bilancia.

Più probabile che lo diventino i “delusi” di Fratelli d’Italia, anche se per ora Giorgio Assenza e Giusy Savarino hanno mostrato attaccamento al partito. Nonostante la dignità calpestata dalle scelte calate dall’alto, dai gerarchi romani per intenderci, che li hanno rimpiazzati in extremis con due ‘riserve’ di lusso (divenute inspiegabilmente titolari): il neo assessore al Turismo, Francesco Scarpinato, che conserva un ascendente innegabile sul Cognato d’Italia, al secolo Francesco Lollobrigida; e la neo assessora al Territorio e Ambiente, cioè Elena Pagana, moglie dell’ex assessore Ruggero Razza, per la quale si è sempre espressa il Ministro del Mare (senza mare) Nello Musumeci. Pur sapendo di scontentare i tre quarti di Diventerà Bellissima, il movimento che s’è dissolto in Fratelli d’Italia per garantire a Musumeci un biglietto di sola andata per Roma.

Ecco: questo è il quadro. Metteteci i dissapori nella Lega; la disillusione di Lombardo nei confronti di Salvini; la tentazione di costruire un ‘partito del presidente’ (assieme a Cardinale e Minardo) per salvaguardare Schifani; l’effetto (tragico?) della parifica della Corte dei Conti; le nomine del sottogoverno; il turnover dei burocrati. Metteteci tutto questo e avrete una miscela esplosiva, che l’attuale condizione dell’Isola non sembra poter reggere. Almeno fino al prossimo schianto.