Ma perché buttarla sempre in politica? La pioggia, il fiume, Il fango, l’acqua, i detriti, la morte. Sta tutta lì, la tragedia. E chissenefrega di Conte, Musumeci, i post di Salvini, il sindaco di un colore e il deputato dell’altro colore. C’è la tragedia e basta. C’è il tragico epilogo dell’incuria, della superficialità e dell’avidità, anche. C’è la deturpazione di un territorio, stuprato, in lungo e largo (fosse solo Casteldaccia!), dall’abusivismo. Che è abusivismo e basta. Non c’è un abusivismo di necessità e uno di capriccio, non c’è un abusivismo di serie A è uno di serie B. Perché le regole sono regole e quando anche solo una di essa, fosse pure la più marginale, incomprensibile ed odiosa, viene infranta, le maglie si allargano e la disobbedienza dilaga. E una villetta s’allaga. L’abusivismo non ha alcuna esegesi, è abusivismo, è abusare di una terra, è sfidare le leggi della natura, del paesaggio, del territorio e, talvolta purtroppo, della ragione. L’abusivismo non ha mai regione. Ha solo responsabili. Quelli che hanno costruito, quelli che hanno autorizzato, quelli che non hanno controllato o, peggio, si sono voltati dall’altra parte. Ed è tutto lì giù, nel fondo d’un barile che imperterriti continuiamo a raschiare, sommerso da metri cubi d’acqua e da montagne di scartoffie, quelle che scoraggiano i virtuosi ed incoraggiano i viziosi, quelle che nei decenni hanno formato nelle teste e nelle coscienze un labirintico mondo di carta, dove strani elefanti in giacca e cravatta si nutrono succhiando dalla proboscide tempo e pazienza e sputando fuori sfiducia ed indolenza. Carte su carte, autorizzazioni dovute ma dimenticate, concessioni non dovute ma comperate, tecnici incompetenti e uffici tecnici compiacenti, perizie spergiurate e manovalanze imperite. Un’elefantiasi lenta ed astrusa, che ha ormai ingenerato la sottocultura del “vabbè, futtitinni”, che finisce infine per rendere tutto fattibile, lecito.

Sta tutto lì, in un fiume carsico dove tutto scorre al contrario, dove nessuno ci capisce niente e dove chi deve capire capisce e si organizza. E costruisce.  E allora perché buttarla sempre in politica? Perché non dire semplicemente le cose come stanno e basta?

Casteldaccia siamo noi, la nostra inguaribile condizione gattopardesca, che ci porta, di rivoluzione in rivoluzione, sempre allo stesso punto di partenza. Perché ci piace essere così. Responsabilmente irresponsabili, comodamente accomandanti, predicatori e razzolanti. In fondo, siamo tutti così. Controllori e controllati, viviamo in uno stato di diritto col nostro status alla rovescio. Altrimenti, non si spiega perché una casa stava lì, sul greto di un fiume, sopra una bomba d’acqua pronta a deflagrare in impetuosa e letale fanghiglia. Qualcuno l’ha costruita, qualcuno l’ha abitata, qualcuno l’ha autorizzata o, peggio ancora, si è voltato dall’altra parte.

Ci saranno processi, mediatici e in senso stretto, ci saranno teste che cadono e teste sotto la sabbia, qualcuno pagherà e qualcun’altro no e, in mezzo a tutto questo, ci saranno le polemiche, le frasi fatte, i rimpalli e le misure straordinarie, perché qualcuno che la butterà in politica ci sarà sempre. E poi ci sarà l’oblio. Lento, inesorabile, implacabile. E torneremo al punto di partenza, sempre allo stesso punto. Dopo la tempesta, splenderà il sole, poi arriverà l’Estate e una casuzza al mare, magari costruita a umma a umma, non se la negherà nessuno.

La tragedia è tutta lì, nella Casteldaccia che c’è in ognuno di noi, nelle vite che continueremo a condurre, lenti, inesorabili, implacabili. Le nostre vite in doppia fila, le nostre giornate in nero, i nostri diritti chiesti come favori e i nostri doveri assolti come benevole concessioni. Perché questo siamo. Siamo quelli che abbiamo costruito una casa a due passi dal Milicia, un anonimo fiumiciattolo di provincia, che un giorno decise di ribellarsi e lo fece nel peggiore dei modi.