Musumeci avrà fatto bene a chiedere il sostegno di Salvini per inserire il ponte sullo Stretto nel piano nazionale di ripresa e di resilienza che dovrà essere definito e presentato a Bruxelles entro il 30 aprile. Quel progetto, già peraltro previsto nel documento di gennaio del precedente governo con la dizione “collegamento stabile”, e gli altri che dovranno essere realizzati in Sicilia con i fondi del piano, non sono questioni che riguardano i rapporti di corrente di Musumeci o la maggioranza che lo sostiene. Esse devono coinvolgere tutte le forze politiche, l’intera realtà sociale, economica e culturale della Regione che ha l’occasione irripetibile di utilizzare quella parte, che le sarà destinata, dei 209 miliardi assegnati all’Italia, 81 circa dei quali sotto forma di contributo e 117 di prestiti. Più che invocare sostegno da leader nazionali o reclamare i diritti dell’Isola attraverso gli organi dell’informazione, sarebbe opportuno che la giunta regionale, l’Assemblea, i partiti, le organizzazioni sindacali e datoriali, le istituzioni culturali trovassero il modo di elaborare insieme proposte credibili per il piano.

Il Paese, con quella cifra eccezionale e imprevedibile, potrà superare la crisi aggravata dalla pandemia, ammodernare la propria struttura economica, riformare la pubblica amministrazione e la giustizia e pervenire, in una parola, ad una condizione di maggiore efficienza in tutti i settori. Il Mezzogiorno e la Sicilia saranno di fronte ad una vera e propria ultima chiamata.

E alla chiamata devono rispondere tutte le forze dell’Isola, in un impegno che lascia al governo centrale, come è ovvio, la cabina di regia ma evita che prevalga una impostazione centralistica, privando l’Isola della possibilità di individuare e proporre obiettivi ritenuti essenziali e compatibili con le disposizioni comunitarie. Il ruolo delle regioni e delle autonomie locali è stato, peraltro, rivendicato in più occasioni non solo con riferimento alle competenze costituzionali, ma perché non si può immaginare che sulle sole amministrazioni centrali gravi il compito di ideare, progettare e realizzare tutto ciò che sarà necessario per passare il vaglio delle autorità di Bruxelles e per attuare il PNRR in quattro anni. Le regioni meridionali devono in primo luogo tentare di impedire che il piano finisca per consolidare l’economia del Nord e la sua egemonia sul Paese, lasciando inalterati gli attuali squilibri territoriali e rivendicare che, nella ripartizione dei 209 miliardi, vengano indicati criteri analoghi a quelli utilizzati da Bruxelles e dalla Commissione per assegnare all’Italia il 28 per cento dell’intero stanziamento previsto per i ventisette paesi dell’Unione. Questo risultato è stato raggiunto principalmente per la condizione del Sud.

Al Sud, al quale il piano destina il 34 per cento, dovrebbe di conseguenza essere attribuito il 65,9 per cento delle somme a fondo perduto, al Nord il 21,20 e il 12,81 al Centro. La necessità di aumentare quella percentuale, che sicuramente troverà ostacoli non facilmente sormontabili, è fondata su motivi di giustizia sociale e anche su valutazioni di natura economica. Non ci sarà vera ripartenza del Paese se una sua parte consistente non supererà o, comunque, non ridurrà il gap e non aggancerà la locomotiva del Centro-Nord e dell’Europa, nell’interesse di tutta la comunità nazionale. La Svimez ha calcolato che “per ogni euro di investimento al Sud si generano 1,3 euro di valore aggiunto e, di essi, 30 centesimi, il 25 per cento, ricadono nel Centro-Nord”. Se si tiene, poi, conto che al termine della attuazione del piano, in Sicilia, è previsto un aumento di sei o sette punti di prodotto interno lordo e di tre o quattro punti di maggiore occupazione, si capisce che gli investimenti nell’Isola non possono essere frutto della benevolenza di un leader politico, né riguardano solo la maggioranza che sostiene il governo regionale. Il piano, come detto, dovrà essere presentato a Bruxelles entro il 30 aprile e per il 2022 è previsto l’impegno del 70 per cento dei 209 miliardi, mentre il restante 30 per cento sarà erogato entro l’anno successivo. Sarebbe quindi ora di correre.

Eppure fino ad oggi c’è stato poco o nulla. È stato reso noto un “primo contributo” della giunta regionale, che, in poche pagine, contiene per lo più un riassunto degli obiettivi generali e alcune proposte del tutto vaghe, tra le quali il ponte, l’alta velocità Palermo-Catania-Messina, un hub mediterraneo aeroportuale e uno portuale, il rilancio della cantieristica, le aree interne, l’acqua nelle campagne. C’è, ancora, un documento altrettanto fumoso del servizio studi dell’Assemblea e non risulta alcuna iniziativa o proposta dei partiti e delle organizzazioni sindacali e datoriali, al di là di qualche sporadica dichiarazione di questo o quell’esponente. Sarebbe quanto mai essenziale ed urgente che il Parlamento regionale dedicasse al piano la propria attenzione, che la giunta promuovesse incontri con le autonomie locali, con le forze sociali, con le istituzioni culturali e con tutti gli esponenti dell’economia. La disponibilità a mettersi insieme, a fare squadra, non è tra le prerogative più forti dei siciliani, preferendo essi la ricerca del protagonismo personale o di gruppo, anche a rischio di disperdere energie e potenzialità. Eppure, in presenza di una situazione già drammatica e ulteriormente aggravata dalla pandemia e di un treno che passa una sola volta, un tentativo dovrebbe essere fatto. È doveroso che la giunta lo faccia, che i partiti escano dalle loro tradizionali contrapposizioni, che i gruppi portatori di interessi si sforzino di trasformare in proposte le lamentazioni e le denunce, pur legittime e fondate. La Sicilia non può rimanere in silenzio ed esclusa dalla governance del piano. Deve poter dire la propria opinione sulla sua impostazione, proporre progetti per grandi infrastrutture, per la creazione di un ambiente idoneo alla nascita e allo sviluppo delle attività d’impresa, per affrontare la vulnerabilità dei territori, per il  turismo e la cultura. La Regione e le altre istituzioni pubbliche, come è previsto dallo stesso piano, devono affiancare ai progetti le riforme indispensabili per concretizzarli con i tempi e le modalità indicati dall’Europa.

Se si tiene conto che le risorse sono aggiuntive agli ordinari finanziamenti comunitari, per molti anni rimasti in gran parte inutilizzati, si capisce che la burocrazia regionale e quella degli enti locali non saranno mai all’altezza del compito. Per riuscirci occorre partire da lì, dalla consapevolezza di non potere fare affidamento su organismi assolutamente inadeguati e trovare viceversa soluzioni che non ci facciano perdere il treno che passa. Una radicale revisione della organizzazione regionale, divenuta ormai una macchina elefantiaca con il motore imballato che gira a vuoto, s’impone da molti anni. Il PNRR potrebbe dare una spinta importante alla politica per ritrovare le ragioni dell’autogoverno e per dotarsi di strutture moderne ed efficaci. Uscendo dal piccolo cabotaggio, la politica deve inventare meccanismi nuovi capaci di progettare e realizzare grandi iniziative, coinvolgendo energie ed intelligenze esistenti nella realtà isolana e, se non bastano, cercandole altrove.

Non è facile né semplice e del resto non è per nulla facile né ordinario il tempo che stiamo vivendo. Occorrono coraggio e fantasia per sciogliere i vincoli impropri di leggi e regolamenti che troppo spesso ritardano l’erogazione dei servizi ai cittadini, complicando la loro vita. Se l’attuazione del piano deve passare per quelle leggi e quei regolamenti, se deve poter contare sull’attuale burocrazia, è una battaglia perduta.

Il piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione eccezionale. I 209 miliardi per l’Italia rappresentano una somma mai vista. Per il Sud e per la Sicilia, ribadiamo, tutto ciò è davvero l’ultima chiamata. Non si può rispondere con l’improvvisazione o la ricerca di padronaggio di esponenti nazionali della propria corrente politica e con il silenzio di tutti i partiti di maggioranza e di opposizione.