Per evitare le cattive figure alcuni dati è meglio non aggiornarli: così, nell’ultima rilevazione di metà febbraio, solo 1.247 Comuni (in tutta Italia) erano riusciti a proporre dei progetti utili per la collettività (PUC), coinvolgendo 5.145 percettori del reddito. I PUC sono una delle poche monete di scambio a disposizione degli enti locali per contrastare il “divanismo”. I cinquemila, infatti, fanno parte dell’immensa platea dei beneficiari del Reddito di cittadinanza, il sussidio introdotto dal governo gialloverde che nemmeno Draghi, fin qui, ha voluto riconsiderare. Il presidente del Consiglio ed ex governatore della Bce, il 6 agosto, ha detto di condividerne “in pieno il concetto alla base” e che “è ancora presto per dire se verrà riformato”.

Il trema rimane in agenda, ma ‘toccarlo’ significherebbe fare un torto al Movimento 5 Stelle e al suo nuovo capo politico, Giuseppe Conte, che già sulla riforma della giustizia aveva minacciato uno strappo (poi rientrato). I giochini e le strategie politiche ad alti livelli, però, non scalfiscono di un’unghia i difetti acclarati che questo strumento assistenzialista – presentato come una politica attiva del lavoro – ha dimostrato e si porta dietro. Come risulta dal sito del Ministero del Lavoro, “i beneficiari Rdc sono tenuti a svolgere Progetti Utili alla collettività (PUC) nel comune di residenza per almeno 8 ore settimanali, aumentabili fino a 16. I Comuni sono responsabili dei PUC e li possono attuare in collaborazione con altri soggetti”. Le attività – non retribuite (ma comunque ripagate attraverso l’accreditamento dell’assegno mensile) – non devono però coinvolgere i beneficiari in lavori o opere pubbliche, né le persone coinvolte possono svolgere mansioni in sostituzione di personale dipendente dall’ente pubblico (o dell’ente gestore nel caso di esternalizzazione di servizi) o dal soggetto del privato sociale. Per esempio, una persona con competenze acquisite nell’ambito dell’assistenza domiciliare alle persone anziane non può “sostituirsi” a un operatore qualificato, ma, eventualmente, potrà costituire un supporto per un potenziamento del servizio.

In altre regioni ci si riesce; ma in Sicilia questo non avviene dato che, dall’ultima rilevazione di Ketty Damante, una deputata regionale del Movimento 5 Stelle, risulta che solo il 38% dei Comuni siciliani abbiano attivato i progetti. Mentre 240 (su 390) non l’hanno ancora fatto. Gli strumenti ci sono: quella che manca, forse, è la volontà politica (ci sarebbe da pagare soltanto l’assicurazione obbligatoria). O la sensibilità culturale, dato che occuparsi del verde pubblico, della manutenzione di strade o cimiteri, della cura delle bambinopoli, eccetera, costituirebbe un’occasione anche per le singole realtà locali, e non solo per i percettori del Reddito, che si troverebbero qualcosa da fare. In alcune città importanti come Palermo, Siracusa e Agrigento nessun PUC risulta attivato. Va meglio a Catania, dove fra PUC attivi o disponibili se ne contano 48. Uno di essi si chiama “Catania vi accoglie”, ed è gestito dall’ufficio turismo del Comune: si occupa di attività di accompagnamento, orientamento e informazione per i turisti che arrivano in città, allo scopo di rilevare la loro customer satisfaction (la soddisfazione del consumatore del servizio). Un altro, “Sicuri a scuola”, si è concluso lo scorso giugno e ha garantito un valido sostegno alla polizia municipale nelle ore di entrate e di uscita dalle scuole.

Ci sarebbero mille modi per impiegare queste persone, che partono certamente da condizioni svantaggiose, anziché lasciarle sul divano di casa a far niente. O, peggio, a consumare qualche attività illecita parallela, in nero, per arrotondare rispetto all’assegno garantito ogni mese dallo Stato. I PUC, fra l’altro, costituiscono la prospettiva più attendibile, dal momento che il mercato del lavoro è tuttora saturo, e nei pochi mesi che hanno preceduto la pandemia (il Rdc è attivo dal marzo 2019) sono state pochissime le offerte di lavoro recapitate dai Centri per l’impiego (e dai navigator) ai sottoscrittori del Patto per il lavoro, cioè i beneficiari del sussidio. La macchina si è inceppata a causa della pandemia, che ha costretto – ad esempio – a sospendere per lungo tempo la condizionalità del beneficio, che avrebbe escluso tutti coloro i quali si sarebbero tirati indietro alle prime tre offerte di lavoro. Molti dei divanisti, però, non sono stati nemmeno convocati, e molti altri non sono occupabili. Ergo, qualcosa va rivisto dalle fondamenta. I PUC, che non richiedono competenze specifiche, sarebbero un ottimo strumento per restituire alla collettività il frutto di questo investimento che costa allo Stato otto miliardi l’anno.

Eppure siamo ancora molto indietro, almeno in Sicilia. In provincia di Ragusa, ad esempio, non è stato attivato alcun progetto. Ma su questa vicenda – e qui la storia diventa paradossale – gli unici ad accendere un riflettore sono i Cinque Stelle, che non rinuncerebbero al sussidio per nessun motivo al mondo. Ma conservano, tuttavia, un certo senso del dovere: “Capite quanto possa essere importante per un comune avere 50/100/150 persone da impiegare nella cura del verde pubblico, pulizia delle strade, vigilanza delle scuole, attività di portineria, ecc… Una risorsa, insomma, formidabile che inspiegabilmente non viene sfruttata”, scriveva il M5s siciliano sui social. Gli altri, tutti muti. A partire dall’assessore regionale al Lavoro, Antonio Scavone, che circa un anno fa aveva consegnato ai sindaci le liste dei beneficiari del reddito finalmente “occupabili” per i progetti di pubblica utilità. Che fine abbiano fatto è un mistero.

Ma anche al Comune di Palermo la situazione è tragicomica: il 3 novembre 2020, con un comunicato pubblicato sul sito ufficiale, si spiegava che sono “pronti a partire i primi progetti di utilità collettiva che coinvolgono i percettori del reddito di cittadinanza. Si inizierà con circa 1.700 persone che saranno impegnate nelle attività organizzate dal Comune e dalle sue partecipate per sei mesi, ma a questi si aggiungeranno altri, con progetti organizzati da altri enti pubblici o da enti privati non-profit. Visto l’alto numero di persone percettori del Reddito (a Palermo le persone potenzialmente coinvolte possono essere oltre 12.000) la Giunta – era specificato nella nota – ha deciso di offrire anche ad enti del terzo settore la possibilità di avviare progetti e in tal senso sarà pubblicato nei prossimi giorni uno specifico avviso”. Il risultato è che a fine luglio di quest’anno, nove mesi dopo, nessun progetto risulta attivato. Alla vigilia di Ferragosto, invece, è stato il sindaco di Porto Empedocle, Ida Carmina, a salutare il primo giorno di lavoro relativo al progetto “di supporto ai servizi sociali, ascolto e accoglienza utenza. I beneficiari presteranno 12 ore a settimana di attività. Per me che credo nella validità della misura del reddito, che certamente va migliorata ma non abolita, è un momento importante, anche per i beneficiari e per i cittadini che vedranno migliorato i servizi”, ha detto il sindaco.

Ora, le possibilità sono due: o gli amministratori locali vanno spronati fino in fondo a intraprendere un percorso virtuoso (e nemmeno così innovativo: il baratto amministrativo è una pratica consolidata da anni) e redarguiti qualora non lo facciano; oppure bisogna intervenire sulla burocrazia per rendere il percorso d’accesso a tali misure più snello e agevole. I sindaci di tutta l’Isola, che stanno facendo i conti con una carenza di risorse senza precedenti, che non riescono a chiudere i bilanci e garantire i servizi, che faticano a coprire i fabbisogni del personale, potrebbero sfruttare questa occasione al volo per sgravarsi di alcune mansioni altrimenti insostenibili. Una realtà come Palermo, in tal senso, avrebbe tutto da guadagnare: pensate che da settimane, per svuotare le strade dalla spazzatura, la Rap (la società della nettezza urbana) deve assoldare uomini e recuperare attrezzature da società esterne, tirando fuori centinaia di migliaia di euro, che vanno a gravare sui costi della municipalizzata e, di riflesso, su palazzo delle Aquile. L’impiego dei percettori del reddito di cittadinanza, per le mansioni più semplici, potrebbe dare una mano.

Il primo passo per valutare la tenuta e gli effetti del Reddito di cittadinanza è proprio questo: renderlo uno strumento utile. Altrimenti c’è il rischio che Matteo Renzi, promotore di una proposta referendaria per la sua abolizione, abbia ragione: “La verità è che il reddito di cittadinanza non funziona: tutti lo sanno, nessuno lo ammette – ha dichiarato il leader di Italia Viva -. Quando uno strappa il velo dell’ipocrisia subito viene attaccato. Io sono pronto a discutere delle misure per lottare contro la povertà. Ma questa misura non può essere il sussidio diseducativo e clientelare che non ti avvicina al lavoro, come dimostrano i dati”.

Primo passo, quindi, l’attivazione dei PUC, attraverso un coinvolgimento più attivo delle Regioni. “Servono fondi e personale. Non è una procedura semplice, vanno sentiti i centri per l’impiego, bisogna predisporre i bandi, è necessario stipulare le assicurazioni per i beneficiari coinvolti” ha detto al Messaggero Luca Vecchi, sindaco di Reggio Emilia e delegato Anci per il welfare. Poi, è utile un ragionamento più complessivo sulle modifiche da apportare. Il governo non ha alcuna intenzione di togliere un sostegno da 581,39 euro al mese a 1 milione e 213.793 famiglie, corrispondenti a 2 milioni e 860.854 persone che lo ricevono. Ma è chiaro che qualcosa va rivisto. Ci sta lavorando il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che al momento del suo insediamento aveva costituito un Comitato scientifico per la valutazione della misura presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno e partecipato da docenti, esperti e rappresentanti di Inapp, Anpal, Inps, Caritas.

Il Ministro del Partito Democratico, stando ad alcune indiscrezioni, potrebbe renderlo più compatibile con le esigenze delle aziende, abbassando da tre a due mesi la durata dei contratti stagionali da proporre al beneficiario. Pressare le Regioni a fare i concorsi per assumere gli operatori dei Centri per l’impiego, rafforzando così le politiche attive per il ricollocamento. E poi mandare a scuola a chi non ha i titoli: per il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, i due terzi della platea del Reddito non è occupabile. Il 72% dei percettori ha, al massimo, una licenza di terza media e prima di introdursi nel mercato del lavoro deve frequentare il mondo dell’istruzione. Bisognerà anche tenere conto, come scriveva qualche giorno fa Repubblica, del “non trascurabile impatto del tasso di evasione tra gli autonomi e di sommerso del lavoro dipendente che distorcono la distribuzione degli 8 miliardi annui (tanto costa la misura), scatenando la bagarre politica ogni volta che la Guardia di Finanza scova i “furbetti” col macchinone”. Il percorso di riforma è serio e articolato, ma da qualcosa bisogna pure cominciare.