L’attesa febbrile per il nuovo governo Schifani s’è già esaurita. Viviamo in una democrazia sospesa, con 48 sezioni ancora da scrutinare. E questo è di per sé inconcepibile con la crisi che bussa alle porte. Gli unici sussulti arrivano da Musumeci & Co., che continuano a presidiare i corridoi della Regione in attesa dei nuovi inquilini. E a collezionare magre figure: dopo la pubblicazione del report sui fondi UE da parte della Commissione Europea, in cui si certifica che la Sicilia ha speso la metà dei soldi previsti dalla Programmazione 14-20 (e che ha tempo fino a dicembre 2023 per non perdere tutto il resto), anche il Centro studi Pio La Torre ha certificato il fallimento nella qualità (e non solo nella quantità) della spesa. Un dramma che nessun governo, forse, riuscirebbe ad arginare. Tanto più il governo di un presidente ‘assediato’, e che sa poco o nulla di amministrazione.

Renato Schifani è un politico al quale l’esperienza, in senso generale, non manca. Ma negli ultimi anni è rimasto lontano da Palermo e totalmente scollegato dai problemi che affliggono la Sicilia. Tanto che in campagna elettorale ha fatto risuonare l’alert del Ponte sullo Stretto, ignorando ciò che viene prima: cioè la restituzione della dignità dei processi amministrativi che nel corso degli ultimi dieci (almeno!) sono stati umiliati. Fa bene Schifani ad argomentare sulla semplificazione burocratica, anche se l’Ars, nel 2019, aveva approvato un disegno di legge che s’è smaterializzato alla prova dei fatti; fa meno bene ad insistere sul Centro Direzionale della Regione, lasciatogli in eredità da Musumeci e Armao, per il quale sussistono – invece – una serie di complicazioni che uno alle prime armi faticherà a risolvere (a cominciare dall’acquisto dell’area dove sorgerebbe il mega complesso, passando per l’azzeramento dei fitti passivi, che significherebbe ridurre in carta straccia tutta una serie di contratti, anche molto onerosi).

In una Sicilia che non ha tempo da perdere, Schifani andrà guidato. Ma è difficile ipotizzare che la sua stagione di governo, che fra l’altro non è ancora partita, possa risolvere i problemi di questa terra. A cominciare dall’utilizzo dei fondi del Pnrr, cui l’ex presidente del Senato pensava di destinare un organismo di vigilanza formato da ex magistrati. La classica boutade per far felice la Dia (direzione investigativa antimafia) che ha segnalato possibili infiltrazioni criminali; e per conquistarsi la benevolenza di certi ambienti dell’antimafia di professione, che ancora non gli perdonano il coinvolgimento nel processo Montante, in cui il futuro governatore è imputato per rivelazione di segreti d’ufficio. Schifani, che di certo è un abile stratega parlamentare, avendo rivestito il ruolo di seconda carica dello Stato, sa certamente come porsi: da uomo delle istituzioni e diplomatico incallito. Ma è questo che serve alla Sicilia?

Anche Rosario Crocetta, per non andare troppo lontano, aveva scelto di affidare i rami più sensibili della sua amministrazione magistrati dal curriculum specchiato (come Nicolò Marino, divenuto assessore ai Rifiuti, salvo dimettersi dopo alcune ingerenze), o a personalità di spicco come Lucia Borsellino, la figlia del giudice Paolo. Ma la pretesa pagliaccesca di governare fregiandosi dell’appellativo di presidente antimafia, al netto delle abilità politiche (assai modeste), fu svelata quasi subito. A Crocetta, per altro, non bastò il supporto del senatore della “porta accanto”, al secolo Beppe Lumia, che coi suoi comportamenti e il suo status (di paladino della legalità), contribuì a trascinarlo a fondo, nel sistema Montante. Dov’è finito, tangenzialmente, anche Renato Schifani, che a differenza di Crocetta, però, deve accontentarsi del fedelissimo Pietro Alongi, che aveva provato a farsi eleggere a Palermo senza riuscirci, e resta tuttavia l’unico postulatore della sua santità.

Gli altri, dentro e fuori dai partiti, si chiedono quale sia la vera arma di Schifani per rivoltare una Sicilia che, ora come non mai, deve affrontare le fasi della ricostruzione. Non esiste un cronoprogramma – lo ripetiamo: siamo ancora fermi allo scrutinio di 48 sezioni – e neppure sui nomi dei papabili assessori viene fuori qualcosa di concreto. Tanto c’è tempo, e come sempre accade in questi casi, si arriverà in extremis. Senza tener conto delle competenze, ma soltanto del bilancino e dei rapporti di forza. Schifani, che pensa gli sia tutto dovuto per aver salvato il centrodestra da una deflagrazione certa, e per il suo alto valore istituzionale, non ha mai amministrato un condominio. Tutt’al più un gruppo parlamentare. E questo si rivelerà un problema.

Sta ancora cercando di orientarsi. E ci sono un paio di dimostrazioni plastiche della sua difficoltà. Una risale allo scorso 15 settembre, piena campagna elettorale, quando l’allora candidato governatore si presentò in platea a Catania, a una kermesse sulla sanità organizzata da Razza, e finì per elogiare il lavoro suo e di Musumeci, dopo le staffilate partite da Forza Italia e dal suo leader Gianfranco Micciché. Reduce da tre anni di guerra e di denunce (pubbliche) sulla gestione della delega più pesante. Segno che Schifani era comunque disconnesso da una delle due versioni raccontate, o forse da entrambe: giacché si disse disponibile a dare continuità all’operato di Razza, ma allo stesso tempo mostrò apertura a FI, il suo stesso partito, per garantirgli la successione in piazza Ziino. Ma un’altra defaillance clamorosa di questi giorni riguarda la giunta di “soli eletti” che il nuovo presidente della Regione ha in mente: una sciocchezza sotto il profilo politico, perché lo priverebbe della maggioranza reale sia in parlamento che nelle commissioni, con assessori costretti a tour de force improponibili per garantire la piena funzionalità dell’intera macchina. Almeno su questo dovrebbe ravvedersi.

Non che i partiti della sua coalizione gli garantiscano stabilità: Fratelli d’Italia e Forza Italia, nella loro contesa a distanza, rappresentano un elemento di disturbo all’azione di governo. I patrioti, che non hanno mandato giù la bocciatura del bis di Musumeci, vorrebbero tutti gli assessorati di peso e la presidenza dell’Ars (per riscattare lo schiaffo). Una richiesta esosa e impossibile da soddisfare, giacché Forza Italia, nelle urne, ha tenuto il passo, e non ha alcuna voglia di tendere la mano: l’ha fatto cinque anni fa, concedendo la Sanità a Razza, e guardate com’è andata a finire. Tra i berluscones, inoltre, c’è sempre una buona dose d’incertezza legata alla presenza (o meno) di Gianfranco Micciché in Sicilia. Con il vicerè al Senato, forse, la missione sarebbe meno ardua.

Ma anche fuori dal recinto della maggioranza sorgeranno nuove insidie: la prima in assoluto è rappresentata da Cateno De Luca e dal suo “governo ombra”, che non concederanno alcun margine d’errore all’esecutivo. L’ex sindaco di Messina, che mastica politica e amministrazione meglio di molti altri, ha già smaltito le tossine della sconfitta. E si prepara a un’opposizione ferrea nei confronti di quella che per lui (e il suo popolo) rappresenta soltanto l’ennesima “banda bassotti politica”. Per il “buon Schifani” non ci saranno comitati d’accoglienza, né feste, né tributi. Solo una marea di problemi da affrontare. Ma tanto c’è ancora tempo: ci si rivede non prima di un mese.